di TOMMASO VERGA
Per certi versi incuriosisce (derivazione: da ‘curioso’) per altri annichilisce la reazione della politica e delle istituzioni ai fatti di questi giorni. Per ora ne vanno annotate tre (e solo tre). Tutte convergono su “azzerare”. Le gare e gli appalti in Regione (motu proprio di Nicola Zingaretti); il vertice del Pd romano (idem di Matteo Renzi); il Movimento 5stelle, con la richiesta al prefetto Pecoraro di sciogliere per mafia il Consiglio comunale e mandare a casa Ignazio Marino (così i Carminati – al plurale, indirizzato a chi non conosce Roma – avrebbero risolto un grosso problema). Ci sarebbe anche Silvio Berlusconi nella partita. Ma non si parla di Milan e non può dettare formazioni.
Regione e Pd. Il primo riflesso che suscita, quello che precede l’analisi – diciamo istintivo – volge sull’interrogativo “possibile che non ne sapessero niente?”.
Poi ci si ragiona su e si scova materia per qualche riflessione. A cominciare da quella che rende non equivalenti, anzi radicalmente dissimili le decisioni dei due leader. Nel merito e nel metodo.
L’”azzeramento” di Nicola Zingaretti appare infatti non solo logica conseguenza delle indagini in corso (che ora, appunto, investono la Regione Lazio), ma anche disponibilità a favorirle, a rimuovere eventuali “ostacoli”. Se ne prende atto, comunque escludendo l’“atto di fede”. Si valutarà in seguito – questione di giorni si presume – se ciò si tradurrà in effettivi “cambi di verso” oppure ci si adeguerà al “sistema Polverini-Alemanno” (“Non ne sapevo niente, i miei hanno tradito”: giustificazione che conduce dritti alla condanna per una colpa equivalente, se non persino più grave: questi hanno amministrato una regione come il Lazio; una città come Roma?).
Lo scioglimento del Pd romano era obbligato, dovuto. E non stupisce nessuno, figurarsi chi, anche distrattamente, segue la cronaca politica. Un assemblaggio mal riuscito di correnti, rivoli e ruscelletti (uno riconduceva addirittura a Di Stefano, figurarsi), in conflitto permanente capi e capetti, indifferenti ai temi della ‘politica’. Non tutti, ma quasi. In questa cornice, il rapporto con Carminati e Buzzi era strategico: come finanziarsi sennò?
Funziona(va) così. Si prenda una elezione. Comune, Municipio, Regione, Parlamento, la solfa non cambia. Con un vincolo, il limite di spesa. Dentro al Pd è valido anche per le primarie. Statutariamente rigido e obbligatorio. Che si scavalca adottando una doppia contabilità, quella ufficiale, nei limiti fissati, e quella occulta, il “nero” (di questi tempi s’è dimostrata la più coerente). La “pista dei soldi” non conduce soltanto agli aspetti conosciuti, ufficiali, il pagamento dei conti di un convegno (di parte, non di partito), di una manifestazione, una cena, un viaggio, un’inserzione (idem per tutti). Meno che mai alla tradizionale promessa di un posto di lavoro, di una promozione. Il vero business – piattaforma della ‘malapolitica’ che poi sostiene la scalata alle istituzioni – si fa con il traffico delle tessere. Che i capicorrente, tramite vassalli, valvassori, valvassini comprano. Fa niente se destinatario del rettangolino sia aderente o simpatizzante di altri partiti. Quello che necessita è che prevalga il numero degli eletti delegati della corrente.
Un’indicazione precisa? In un congresso a Guidonia Montecelio si contarono quasi diecimila iscritti di un partito che, “normalmente”, non raggiunge i 300 (per evitarlo, non si fa più il congresso locale, tutto si decide a tavolino). A Tivoli, stesso avvenimento, proprio nel momento di apertura dei seggi, una volta si presentò un tizio che depositò mille tessere di iscritti non registrati all’anagrafe del partito. Le custodiva nella sua borsa.
Per non parlare, localmente, del seguito. Intanto, in quanto partito, nella città dell’arte il Pd è sparito, annichilito dalla sconfitta elettorale, e osserva senza una linea il sindaco (Pd) che fa “cose di sinistra” a capo di una giunta variocolorata. A Guidonia, il Pd-partito tenta di riorganizzarsi ma mostra seri limiti, di subordinazione innanzitutto, a un Pd-consiliare dominato dai ‘vecchi’, la cui caratteristica principale, meglio: unica, è il mutismo e l’assenza di proposte, tanto da far immaginare un accordo con la giunta di centrodestra. D’altronde, proseguirebbe nella politica dei cinque anni precedenti la consultazione del 25 maggio. Senza titubanze: ci vorrebbe davvero il commissario.
Un partito così si può “riformare”? Sì, è possibile. Facendo “piazza pulita”. Invece Matteo Renzi ha deciso che confanno più gli studi di “bersaglio mobile”. Già sapendo che l’obiettivo “ripulire” non potrà raggiungersi con il “commissario” Matteo Orfini. Ossia con un romano, tra i maggiori, diretti protagonisti delle vicende correntizie che dalla fondazione hanno caratterizzato il Pd capitolino. Ha il vantaggio di chiamarsi anch’egli Matteo. Chissà se riuscirà a convertire i sempre meno convinti che possa essere sinonimo di taumaturgo.