di TOMMASO VERGA
31 ARRESTI a fine gennaio d’un anno fa, tra quali due affiliati locali al clan Molè (Vibo Valentia). Nove quelli ‘beccati’ ora tra Tivoli e Guidonia Montecelio. L’appartenenza stavolta risale al clan Strangio, la famiglia di San Luca, protagonista della faida le cui origini risalgono al 1991.
L’input all'”Operazione Silentes” (in tutto 36 arresti tra Lazio e Reggio), che ha interessato stanotte tutta la provincia a est della capitale, risale all’arresto di Giuseppe e Antonio Strangio, 36 e 33 anni, nella loro villa a Ostiense il 20 ottobre scorso. La Dda (Direzione distrettuale antimafia) di Reggio Calabria ritiene i due fratelli appartenenti alla ‘costola’ degli Strangio detti “Janchi”, attiva a San Luca e federata al clan Nirta, protagonista della strage di Duisburg, in Germania, il 15 agosto 2007.
I carabinieri di Tivoli – attivamente responsabili della (ancora parziale) conclusione delle indagini – hanno notificato l’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip del tribunale di Roma su richiesta della Direzione distrettuale antimafia, a otto uomini e una donna, sette in carcere e due ai domiciliari.
Per quattro, tutti italiani, l’accusa è di far parte “di un’associazione per delinquere operante nella provincia di Roma, finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti provenienti dalla Calabria, con l’aggravante della disponibilità delle armi, dell’impiego di minorenni nell’attività di spaccio e di aver agevolato l’attività della“’ndrangheta” con articolazioni operanti in Calabria e nel Lazio per il controllo delle attività illecite sul territorio.
Al capo dell’associazione, un 34enne originario di San Luca, contiguo alla cosca “Nirta-Romeo-Giorgi”, è stata inoltre contestata l’intestazione fittizia di beni: a fine 2014 aveva preso in gestione un bar nel centro storico di Tivoli, intitolandolo ad una società, così come avvenuto per un’autovettura Smart a compensazione di debiti maturati e non pagati.
Per altri due destinatari della misura cautelare, un italiano ed un albanese, l’accusa invece è quella di “sequestro di persona a scopo di estorsione nei confronti di un italiano che è stato rinchiuso in un garage, picchiato e minacciato di morte poiché accusato di essersi fatto sottrarre quattro chili di eroina durante il trasporto in Puglia per la cessione ad un gruppo di criminali albanesi“. A tutti sono inoltre contestati i reati di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Con l’aggravante dell’impiego di minorenni.
Lunga ed articolata l’indagine, avviata dai carabinieri della Compagnia di Tivoli, messi sull’avviso dalle “influenze” che due calabresi, legati alla ’ndrangheta, esercitavano sul traffico di stupefacenti nell’area tiburtina e più in generale, nella periferia est della capitale. Entrambi, con base nel cuore della Locride, avevano organizzato e gestivano l’ingente traffico di droga che alimentava lo spaccio territoriale. A riscontro del fatto che l’attività illecita venisse condotta per conto della ‘ndrangheta, sono stati recuperati anche “pizzini” manoscritti da un elemento di vertice della ’ndrangheta, attualmente detenuto in carcere, che contenevano le “istruzioni” su come muoversi nella gestione del traffico. L’analisi dei manoscritti ha consentito di proseguire nelle indagini fino a ricostruire l’organigramma dell’associazione gestita dai calabresi, i quali prima importavano lo stupefacente dalla terra d’origine e successivamente lo cedevano a diversi gruppi organizzati nell’area tiburtina per lo spaccio al “dettaglio”, riportando gran parte dei proventi in Calabria.
Comunque, che si trattasse di una organizzazione “a tutto titolo” è dimostrato dal rivenimento nel garage di un arrestato di armi a disposizione del clan. Sequestrati una pistola cal. 6,35 ed un fucile cal. 12 a canne mozze, entrambi con la matricola abrasa. Secondo i carabinieri di Tivoli, le armi in più occasioni sono state utilizzate sia per minacciare e intimorire chi aveva debiti da saldare ma anche chi tentava di opporsi. In particolare, il capo dell’organizzazione è descritto come solito ricorrere a un comportamento “mafioso” tanto da minacciare con la pistola alcuni rumeni che frequentavano un bar di Guidonia dove lui si recava quotidianamente o far giungere una busta con all’interno un proiettile al proprietario del bar che si era lamentato per il suo atteggiamento con i clienti.
A corollario, il giro d’affari. Elevato. Sono state documentate trattative per lo scambio di notevoli quantitativi di droga che una volta piazzati sul mercato fruttavano centinaia di migliaia di euro. Come detto, i proventi venivano quindi in parte riportati in Calabria ed in parte reimpiegati in attività regolari che venivano intestate a prestanome per eludere i controlli delle forze dell’ordine.
Aggiunto a diverse forme di allarme costituito da episodi (incendi, slot machine, eccetera), il tutto conferma il riscoperto interesse delle organizzazioni criminali per il territorio contiguo alla capitale, in particolare a est. Prestando la massima attenzione inoltre, da non sottovalutare, al fatto che l’assenza di consolidate forme di clan indigeni, da qualche mese ormai fuori gioco causato da motivi giudiziari, costituisce un “boccone” ambito da contendere. A differenza di quelli contati sino a quattro anni fa, alla fase conclusasi con la pax accettata tra le bande romane relativamente alla spartizione delle aree di competenza, i morti ammazzati nei giorni scorsi – a Ponte di Nona; sulla Casilina – possono rappresentare l’aprirsi d’un nuovo fronte, favorito proprio dall’assenza del “mediatore”. Con l’esordio, ufficiale stando alle generalità, di protagonisti venuti dall’est (non quello capitolino). Tira una brutta aria.
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