“SI VEDRANNO gli sviluppi. In attesa, davanti a un caffé. Probabilità: a più d’uno. Meglio così, occorre tempo per calcolare quante bustine serviranno per renderlo dolce”: due righe che concludevano il pezzo sul “caso Di Palma” del 19 ottobre su hinterlandweb. Ora sarebbero note le preferenze dei degustatori, la marca della bevanda e quante bustine di zucchero sono occorse. Per i cronisti, non per la guardia di Finanza, ormai di stanza a Guidonia Montecelio.
Un imprenditore vuole utilizzare un terreno libero di proprietà limitrofo all’impianto dove si svolge l’attività industriale. A ipotizzare, un deposito del prodotto. Una domanda priva di retropensieri. Per la quale serve comunque il permesso del Comune. Sollecito dopo sollecito, dopo un anno ancora nessuna risposta. Arriva un “santo in paradiso” e fa intendere che per il rilascio del benestare occorre mandar giù un caffè ben zuccherato. Il cronista deve ricorrere al ventaglio delle descrizioni che vengono dalle tre scimmiette che presidiano la piazza del municipio, il “santuario della politica”, e che ben conoscono quanto è accaduto. La sintesi: si presume che il soggetto sia andato in Procura a Tivoli e abbia denunciato l’accaduto. Il magistrato architetta il piano. “Faccia finta di niente, accordi la richiesta, al resto pensiamo noi”.
La fase successiva si svolge, appunto, in un bar. Indirizzata dall’imprenditore a due elemosinieri – un dirigente del Comune e un ex consigliere – transita una busta contenente 14 mila euro. Alla commedia dello “scambio”, preventivamente addestrato, avrebbe preso parte il titolare di un negozio antistante il bar, incaricato di inguattare la “mazzetta” in caso di incidenti. Provocati, come da copione. Appostata, la guardia di Finanza registra tutto. Chiuso ieri il sipario, perquisizioni e altra pioggia di avvisi di garanzia.
Da “caffè nero bollente” a “cosa hai messo nel caffè” il più aderente appare un detto popolare: per assaporare il sublime godimento di un caffè è indispensabile seguire la regola delle tre “C”: carico, caldo, comodi. Il triello nella vicenda ci sta tutto salvo l’ambiente (stare comodi) che è risultato traditore. Tanto da vendicarsi dell’intrusione: “Qui ha cenato il giudice Alfredo Galasso, a suo tempo componente del Csm (Consiglio superiore della magistratura), e successivamente avvocato della famiglia Dalla Chiesa nel maxi processo di Palermo contro la mafia. Come vi permettete di sporcare queste pareti?” hanno sentenziato i muri. Mandando il caffè di traverso. Amaro ovviamente.
(Da commedia all’italiana il surreale dialogo tra il defunto proprietario del bar e Alfredo Galasso: “io vi ho visto in televisione, in una cosa contro la maffia” (il primo); “probabile” la risposta. “Allora è venuto a Guidonia per arrestare i mafiosi?”. “Veramente sono venuto per vedere i miei amici con i quali vorrei cenare, stiamo aspettando da un po’”. “Potevate venire prima, oppure mi telefonavate, non è che se arrestate i mafiosi avete diritto di precedenza. Nel mio locale comando io”. “Allora mi sta dicendo che il mafioso è lei? (ridendo)”. “Ah, l’avete capito! Allora vi porto subito il primo…”).