di TOMMASO VERGA
LO SPUNTO viene offerto da change.org, portale delle petizioni popolari, il quale da oltre un mese riporta l’appello indirizzato a Nicola Zingaretti, presidente della giunta regionale, perché receda dall’intento di far cessare le attività collegate alla nefrologia nei nosocomi della provincia di Roma. In tutti, nessuno escluso: “Il Decreto del Commissario ad Acta 291 del 18 luglio 2017 programma la chiusura delle Unità Operative Complesse di Nefrologia degli Ospedali di Tivoli, Colleferro, Ostia, Albano, Civitavecchia, oltre a Cassino e Formia” si legge.
“Il Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha promesso di correggere il Decreto, ma a marzo finisce il suo mandato. Rimangono ormai poche settimane per correggere dei tagli che cancelleranno la rete nefrologica provinciale” è la conclusione. Naturalmente, non manca l’invito a firmare la petizione.
In termini “pratici”, la questione potrebbe condensarsi in un paio di positive osservazioni in favore dei richiedenti (nefrologia fa pendant con dialisi), se non fosse che il decreto altro non fa che riproporre la consueta, inveterata pratica dei disequilibri causati dal governo “centrale” al territorio limitrofo alla capitale, la Regione Lazio nella circostanza. Il trionfo delle diseguaglianze: in questo caso, la Pisana decide che nefrologia rimane operativa soltanto nelle strutture ospedaliere dell’Urbe.
Al “San Giovanni Evangelista” di Tivoli, l’utilizzo annuo dei 10 posti-letto di nefrologia è pari al 93,8 per cento
Tutto risiede in una più numericamente elevata richiesta di specialità rispetto ad altre. Poniamo occorrano quantità maggiori in medicina. Non si possono soddisfare, non ci sono posti letto. Allora si decide che alla carenza-assenza porrà rimedio la chiusura di un reparto meno “frequentato” (nefrologia come esempio). Una terapia che trova spiegazione nella statistica e nei bilanci delle aziende sanitarie.
I quali riferiscono come i posti-letto di nefrologia nei nosocomi della provincia romana non raggiungano l’ottimizzazione, numeri e percentuali indicano che in rapporto alle risorse i risultati sono inferiori alle attese. Per illustrare compiutamente si prende in esame il reparto del “San Giovanni Evangelista” di Tivoli.
L’utilizzo annuo dei 10 posti-letto di nefrologia è pari al 93,8 per cento, equivalente a 3424 giornate. Il “piatto piange”, la remissione è pari a 226 giorni/letto non utilizzati. Una contabilità che se agli utenti interessa meno che poco – e che giustamente non gradiscono – è in cima ai pensieri degli organi regionali di gestione, la cosiddetta “cabina di regia”.
Alternative alla cessazione e alla riconversione verso una domanda “produttiva”? Nessuna. Per un motivo semplice, intrinseco alle scelte della “politica”. Infatti, restando alla Rm5, la quantità dei posti-letto è pari alla metà di quanto stabilito dalla legge. Se è indispensabile un letto in più occorre trovarlo da qualche parte. Tutto in ragione di un decreto della ex presidente della giunta Renata Polverini, commissario ad acta della sanità della Regione Lazio, avente per oggetto la “riorganizzazione della rete ospedaliera”.
La legge nazionale, la 153 del 2012, stabiliva 3 posti-letto ogni mille abitanti. Il decreto che l’ha preceduta, della Pisana (il n. 80 del 30 settembre 2010), riproporzionava il numero a 1,6 posti letto. Così, anziché adeguarsi al dettato del Parlamento, la RomaG dell’epoca imboccò la direzione opposta, passando prima a 1,29 posti letto per scendere ulteriormente al valore attuale: 1,21. Nella gestione quotidiana, ciò si è tradotto nella ricerca spesso affannosa di soluzioni per fronteggiare le richieste, una alternativa all’altra (si pensi alle liste d’attesa o alla ricerca ovunque d’un letto libero per un ricovero). Fino alla chiusura di un servizio con relativa riconversione.
Si è giunti così al decreto del commissario ad acta del 18 luglio scorso (nella foto in alto), si presume l’ultimo di Nicola Zingaretti prima delle lezioni del prossimo anno. Anch’esso prevede la programmazione della rete ospedaliera (nel biennio 2017-2018). Neppure un “ritocco” ai parametri fissati dalla Polverini. Benché siano passati più di dieci anni.
In tutta la Roma5, a fronte dei 1.353 posti-letto fissati dalla legge, risultano soltanto 398 quelli effettivi
In cifre, nella Rm5 mancano 954 posti-letto (398 quelli disponibili per acuti, secondo la legge del 2012 dovrebbero essere 1.353) con la conseguenza che la mancata osservanza degli standard prescritti, annota il numero di 570 utenti in “mobilità passiva” (la scelta di un presidio alternativo, non solo nella capitale o nella regione).
Un osservatore potrebbe obiettare che in fin dei conti si tratta di una “partita di giro”, se non fosse che la disorganizzazione della sanità e l’approssimazione, conducono a rinunciare alle cure oppure, avendone disponibilità, a rivolgersi al “privato”. Tanto è vero che nessuno tiene in considerazione la diversità tra la struttura cittadina e quella della provincia. A Roma si esce di casa e – con le difficoltà e le traversie che si conoscono – un bus, la metro, un taxi, il tram, rendono agevole ogni trasferimento. Provincia-centro-provincia non è così. “Si lamentano…? Certo, sono ammalati”.
Anche se i “cattivi” non sono tutti altrove, fuori di qui. Fu la paesana-corporativa difesa delle “bandierine” a impedire l’investimento dei 100 milioni – pronta cassa, finalizzati e stanziati – per la realizzazione del policlinico dell’area tiburtina, con una significativa dotazione di posti letto e previsione di specialità mai più attivate. Ci pensò poi Francesco Storace, presidente della giunta regionale, alla distribuzione della somma a pioggia.
Un’opera che avrebbe “ottimizzato” l’organizzazione dei servizi sanitari in tutta l’area orientale, con la puntuale definizione delle specializzazioni e l’arricchimento dell’offerta dei presidi minori (l’ospedale montano di Subiaco, la Casa della salute di Palombara Sabina). Una grande occasione mancata. Anche rispetto ai conti. Ma forse qualcuno puntava a cancellare il rosso. Dai bilanci.