di TOMMASO VERGA
FERDINANDO Imposimato ebbe conoscenza del perimetro tiburtino in uno dei momenti peggiori della storia del comprensorio. A quel tempo, siamo ai primi anni ’80, le attività economiche, oltremodo redditizie le manifatturiere e le commerciali, risultavano pesantemente ricattate dalla banda criminale che sommava i fascisti della “Rochelle” – il circolo “culturale” di Villa Braschi fondato dall’ordinovista Paolo Signorelli –, alla malavita, non “di paese” organizzata dagli inviati al soggiorno obbligato.
Un matrimonio di interessi a carico delle città di Tivoli e di Guidonia Montececelio. Con esercenti che scelsero di chiudere i negozi per non pagare il pizzo o sottostare ai “cravattari”, all’usura.
Per definire la portata degli eventi delittuosi e il luogo dove di notte abitualmente saltavano le saracinesche, ma soprattutto s’allungava l’elenco dei morti ammazzati, imprenditori in genere, i cronisti di “nera” della capitale coniarono l’espressione “triangolo della morte” (Tivoli-Villanova-Villalba).
Fatti criminali e contesto misero a dura prova le capacità professionali delle forze dell’ordine, quattro gatti davvero, male distribuiti. Tuttora ignoti gli autori degli omicidi di almeno sei persone. Né fu sufficiente il supporto venuto dalla capitale, degli uomini in divisa intervenuti a Tivoli al comando di Nicola Cavaliere, appena insediato alla “omicidi” romana.
L’11 ottobre del 1981, una “retata” consegnò a Regina Coeli 40 sospettati di crimini diversi e di diversa gravità. Globale l’associazione per delinquere. L’operazione durò lo spazio di un mattino visto che tutti vennero scarcerati qualche giorno dopo. Gli indizi? Insufficienti. Salvo Filippo Todini, condannato in attesa di processo a 4 anni di carcere preventivo.
In questo panorama, meno di quattro mesi dopo, si inserì la figura di Ferdinando Imposimato. E della sua indagine della durata di due settimane, compresa tra il 16 e il 28 gennaio del 1982. Il clamore raggiunse l’apice allorché, a seguito di un’ordinanza del magistrato (nelle vesti di giudice istruttore), una squadra speciale di sommozzatori della polizia si immerse nel laghetto San Giovanni, la voragine creata da un sinkhole, all’epoca situata proprio di fianco all’attuale via Longarina, tra il centro commerciale “la Triade” e la tenuta Cornetto-Bourlot, sulla linea di confine tra Tivoli e Guidonia Montecelio.
Quel decreto portò in superficie 110 automobili, un camion con rimorchio e tre morti ammazzati. Uno rimasto sconosciuto, mentre gli altri due – Vincenzo Travaglione e Gennaro Mondella – si sospettò fossero componenti di una “centrale” legata ai servizi segreti stranieri. Imposimato ritenne che i due fossero stati arruolati da un’organizzazione internazionale, alimentata dai servizi segreti dell’Est, il cui scopo sarebbe stato la destabilizzazione dell’Italia a livello politico e sociale.
Neppure tale ipotesi – i paesi dell’est europeo implicati nell’operazione –, smorzò la polemica nemmeno tanto sotterranea, imbastita dalla destra, vogliosa di condurre lo sviluppo della storia nell’alveo del terrorismo, di sinistra ovviamente, che Ferdinando Imposimato a dire dei postfascisti non era intenzionato a sviluppare a causa della sua “appartenenza”. La medesima che, l’11 gennaio, non gli aveva impedito di disporre il rinvio a giudizio di 48 persone accusate di far parte della colonna romana delle Br.
In realtà, le farneticazioni della destra sottintendevano un altro ben più “corposo” teorema: far dimenticare che nel “triangolo della morte” erano stati proprio gli ordinovisti del “La Rochelle” a segnare la fine di persone del tutto incolpevoli e indifese. Ed anche fuori trilatero, come fu per l’agente Marino a Milano.
Dopo i cadaveri del laghetto il magistrato dovette fare i conti con una successiva scoperta, quella dei due cadaveri interrati in un appezzamento agricolo lungo la Maremmana, verso Marcellina, nella zona chiamata “dei siciliani”. Un ritrovamento che secondo Imposimato rafforzava l’ipotesi iniziale dei “servizi” dell’est, alla quale aggiunse il traffico d’armi.
Nonostante l’impegno, non soltanto del magistrato, l’operazione giudiziaria non trovò conclusione. Le ipotesi non giunsero al riscontro e il laghetto di Collefiorito (o di San Giovanni) rimase un capitolo del romanzo criminale di quegli anni.
Una vicenda che non sarebbe inutile rimettere all’ordine del giorno d’un approfondimento, d’una nuova indagine che utilizzi le tecniche e la scienza forense della generazione successiva a quella del tempo degli avvenimenti. Riaprire un cold case sarebbe il miglior omaggio a Ferdinando Imposimato.