di TOMMASO VERGA
IL NUMERO E’ IMPRECISATO, però alla domanda «quanti siete?» la risposta è «parecchi, proprio tanti». Chi è «andato avanti», già superata la sperimentazione, chi sta organizzando. Alla Rm5, in settimana dovrebbero andare a compimento i collegamenti, la dotazione delle password e quant’altro è richiesto in termini di operatività (licenziare una delibera della Asl richiede una mezza dozzina di firme). Comunque, lunedì si dovrebbe partire. Nelle ville di Tivoli – d’Este, Adriana, il Santuario di Ercole vincitore: chiuse dal decreto del ministro Franceschini – gli amministrativi in gran parte non escono di casa, a differenza dei custodi, ovviamente sempre presenti. Nei due Comuni più grandi, Tivoli e Guidonia Montecelio, al lavoro agile è stato aggiunto il capitolo «ferie non godute».
Campione limitato, ma utile per dire che in effetti il contenuto dei decreti del 4 e dell’11 marzo scorsi è stato recepito. Ad appena 20 anni esatti dal primo tentativo di sfruttare lo smart working non solo nella pubblica amministrazione.
Prova fallita quella di allora. E abbandonata. Funzionerà adesso? Vediamo. La «ricerca» sul lavoro a domicilio si svolge senza regole. Unico motivo della perlustrazione, sapere se l’avvento del Coronavirus è stato accompagnato dallo sviluppo del lavoro a distanza, del telelavoro. La risposta è sì. Seppure variegata. Con qualche paradosso. Per dire: «Il/La sottoscritto/a……. dichiara sotto la propria responsabilità: a) di disporre di un pc o portatile personale con Windows 8 o superiore; b) di utilizzare una connessione internet disponibile; c) la disponibilità eventuale e temporanea a configurare la propria dotazione nella modalità funzionale allo svolgimento dell’attività lavorativa (installazione licenza e prodotti Office 365)».
«Ma come? lavoro da casa, e l’azienda non fornisce il computer?». Anche se non tutti fanno così (si presume o, almeno, si spera), però le righe in corsivo campeggiano sul modulo che la Regione Lazio mette a disposizione di chi intende adottare il «lavoro agile», ops, lo smart working, vuoi mettere? E i programmi? meglio passare al nastro: per quale orario, quante ore? la mattina, il pomeriggio? Par di capire che nessuna trattativa ha preceduto l’adozione del provvedimento, nella stesura e nella pratica attuazione. Per cui la serie di domande resta appesa.
Viene poi la connessione. Tutto da verificare, costo compreso. Chi è nelle grazie di Tim-Telecom-Stet-Teti ha un giga di servizio-base-finale via-cavo; al contrario, è obbligato a contrattare il segnale con le volenterose aziende che caricano internet sull’antico doppino in rame domestico. E quando fa cattivo tempo (atmosferico, non della rete)? Niente connessione. E pensare che, al ritorno dal Parlamento europeo, Nicola Zingaretti aveva promesso di fare del Lazio l’emulo dell’Emilia, dove la Regione ha portato il segnale in (alta) montagna.
Intendiamoci, sono tutte carenze di relativa difficoltà che si potrebbero rapidamente superare (salvo il quiz pluridecennale del monopolio), soltanto si decidesse di fare dell’Italia (tutta? fino al casello di Ponzano? sotto il Garigliano? e le isole?) un Paese come si deve.
Mentre ci si pensa, si annuncia, si dice, il Coronavirus riporta al lavoro da casa, al telelavoro. E dire che a fine secolo, se ne ragionava per effetto del brevetto «Pirelli». Il sogno di internet agli albori su fibra ottica – l’Italia che insegnava al mondo come si fa – indossava gli abiti di Tronchetti Provera, il quale, attraverso Goldman Sachs, nel 2005, vendeva l’invenzione alla «Prysmian», da allora leader mondiale della fibra ottica (presente in una cinquantina di paesi, 112 stabilimenti, 30.000 dipendenti). Un miliardo e mezzo di euro e la Pirelli si salvò.

E se invece volessimo parlare di terapia per le città, Roma ad esempio?

Un fazzoletto di carta, gettato per terra. Quanto costa alla città che ne è inerte e inconsapevole organo recettore? Quel rifiuto va raccolto, inviato in differenziata, recuperato, magari verrà intriso di una sostanza (chissà se si adopera tuttora soda caustica) che lo farà diventare pasta-legno, per farlo tornare carta. Un gesto banale, elementare, che non si deve fare e che costa moltissimo.
Rispetto ai rifiuti, quei 500mila pendolari pagano l’imposta al Comune di provenienza. Pur usufruendo del servizio dell’Ama, la municipalizzata del Campidoglio, che però non ricava nulla da costoro. Non occasionalmente, una tantum. Ma sempre, da sempre e per sempre.
Ora si prendano 312.943 persone. Qualifica: pendolari per ragioni di lavoro (solo lavoro). Il 67,5 per cento residenti in Comuni della Città metropolitana romana: 211.236 persone (fonte: Rapporto statistico 2017 sull’area metropolitana romana: La mobilità e il pendolarismo – Dipartimento trasformazione digitale del Campidoglio). Si aggiungano quelli che ricorrono alla Capitale per motivi di salute, di studio, tempo libero, e si superano 500mila persone. Ogni giorno. Secondo l’Istat, il 73,7 per cento di quanti si muovono per ragioni di lavoro usa esclusivamente mezzi privati. Nella misura di 3.499.806 totale dei veicoli circolanti nella Città metropolitana al 31 dicembre 2016.
L’argomento non abbisogna di illustrazioni maggiori. La sottolineatura semmai riguarda la totale sconfitta della politica rispetto alla necessità di un riequilibrio del sistema territoriale che circonda la Capitale. «Curatore» del fallimento, la Città metropolitana che ha superato il quinto anno di vita (è nata il 1° gennaio 2015). Ma che non vuole intendere qual è la soluzione del problema.
Lo conferma la vicesindaca Teresa Zotta, dopo aver partecipato in videoconferenza al decimo meeting del «progetto europeo Smart-Mr» svoltosi a Budapest: «L’obiettivo del progetto è quello di aiutare le autorità locali e regionali a migliorare le politiche dei trasporti, fornendo misure sostenibili per conseguire sistemi di mobilità low carbon e resilienti nelle regioni metropolitane. Questo è stato il primo meeting della seconda fase del progetto, che prevede di realizzare un piano d’azione con le misure chiave per ottenere trasporti resilienti. L’obiettivo verrà realizzato monitorando un progetto della Regione Lazio che vuole estendere a tutto il territorio metropolitano i servizi di bigliettazione elettronica e info mobilità già previsti per il sistema Metrebus. Questo permetterà di ridurre l’uso del veicolo privato, di regolarizzare il traffico veicolare e gli incidenti stradali (regolarizzare gli incidenti stradali? ndr), e quindi di decongestionare la mobilità».
In realtà, il ricorso all’uso del mezzo pubblico è «predica» vecchia alla pari dell’indifferenza verso il territorio dell’hinterland. Quello che mostra oggi il Campidoglio è quantitativamente diverso (di qualità meglio non parlare) da quello precedente della Provincia (comunque incomparabile, basta giudicare lo stato dei rifiuti abbandonati sulle strade una volta provinciali passate al moderno ente di governo dell’area vasta). La soluzione se davvero si vuole affrontare l’argomento, passa attraverso la riduzione del pendolarismo. Riduzione netta. Della quale lo smart working costituisce l’asse portante. Dopodiché battaglia sia: ma contro la mobilità e il traffico. Lo smog e i provvedimenti di chiusura della città conseguenti.
Un rimedio «ideale» se si considera che Roma è la Capitale d’Italia e quindi, di conseguenza, della burocrazia (ma il ricorso allo smart working dovrà interessare non solo i ministeri, ma la Regione, le circoscrizioni, il Colle capitolino). Ridurre il flusso dei pendolari provenienti dalle periferie – la prima, formata da quelle interne al perimetro cittadino; la seconda, dai 120 comuni dell’hinterland – costituisce l’unica ed esclusiva terapia per risolvere gran parte dei problemi. Gran parte.
Roma, in quanto prima sede della burocrazia, potrebbe rappresentare la «culla» ideale per supplire, almeno parzialmente, part-time settimanale o mensile, a quello che da secoli, nella Storia d’Italia, si propone come un «onere naturale». Una trattativa tra lo Stato e le rappresentanze dei dipendenti, avente per oggetto il calendario delle presenze negli uffici di appartenenza e le modalità di connessione con il «centro», non risolverebbe soltanto il problema della quantità di presenze ma darebbe un contributo di enorme rilevanza alla vivibilità della Capitale ma anche delle cittadine della «corolla», con le automobili che rimarrebbero inattive per tutto il tempo del lavoro.
Senza sottovalutare né tantomeno nascondere le difficoltà (la principale: trattamento dei dati personali, tema al quale occorre prestare massima attenzione), la soluzione passa nel lavoro a distanza, nello smart working. Se ne potrebbe parlare…