di TOMMASO VERGA
LA NEGAZIONE (DETERMINATA, CATEGORICA): era/è un «mitreo»? «Una ipotesi fantasiosa. I lavori di consolidamento hanno definitivamente fugato l’insistente quanto fantasiosa ipotesi che lo sia stato anticamente, seguito da una fase paleocristiana. Una interpretazione sostenuta con l’avallo di autorità accademiche e divulgata anche a mezzo stampa e sui social sin dal 2014, ma avanzata già negli anni Settanta, è un exemplum degli errori cui l’insufficiente o inadeguato esame di un monumento può condurre. Io mi sono limitato ad osservare come aspetti reali – quali il carattere sotterraneo, il culto cristiano, il soffitto ornato con le stelle – siano stati coniugati con altri totalmente inventati».
Un esempio non guasterebbe. Anzi, sarebbe davvero necessario. «Il più illuminante: le modifiche sono state apportate agli ambienti d’origine per ricavare una cantina. I moderni bancali per le botti sono stati interpretati come giacigli per i conviti degli adepti del culto di Mitra, il prolungamento ad uso cantina ritenuto parte dello spelaeum mitraico con l’ara o la statua del dio illuminati dal pozzo-lucernario, che, va sottolineato, è identico ai pozzi delle caverne moderne scavate sul pendio collinare».
Ma allora cos’è? come classificarlo? «“Oratorio rupestre di Marco Simone Vecchio”: sola denominazione che si attaglia alla storia e alle caratteristiche del manufatto. Tenga conto che, a sostegno del presunto “mitreo”, si è anche esibito un piccolo bassorilievo marmoreo raffigurante la tauroctonia, di ignota provenienza, da tempo conservato a Montecelio, che, comunque, non può essere stato rinvenuto a Marco Simone Vecchio, in quanto la località faceva parte, prima della nascita del Comune di Guidonia Montecelio (1937), dell’Agro Romano».
Non tanto una intervista né una «mitreo story», quanto il commento a conclusione di un intervento – da salutare con un lungamento atteso «finalmente!» – che ha provveduto alla riconsegna alla città di Guidonia Montecelio di quello che l’archeologo ha definito «Oratorio rupestre di Marco Simone Vecchio».
Si è trattato di un’azione («di pronto intervento») promossa dalla necessità di consolidare il manufatto – oggetto della divisione tra chi in città lo valutava «mitreo» (come scrivemmo su hinterland il 15 settembre 2014 riportando la notizia di una «escursione» di giovani ricercatori) e chi confutava la denominazione. Disputa a parte (ormai consegnata agli archivi), sul contenuto dei lavori si propone il racconto di Zaccaria Mari, l’archeologo che ha coordinato la terminata di recente stabilizzazione dell’edificio: «Oratorio rupestre di Marco Simone Vecchio» appunto. Quanto si assegna all’oggi e cosa si prevede nel futuro.
Inevitabile il riepilogo della storia dell’Oratorio. Del quale venne fornita notizia solo nel 1972, per quanto le carte riconducono a una conoscenza cha data almeno agli anni Trenta del secolo scorso, allorché nella località venne aperta una cava di tufo. «Riconversione» che evidenziò le attuali caverne. In occasione della riscoperta fu messa in risalto soprattutto l’importanza della decorazione pittorica, allora meglio conservata (descritta in una relazione con corredo di foto, a firma di Carlo Bertelli, edita in Quilici, Quilici Gigli, 1993) e destinata a subire nel 1978 gravi danneggiamenti.
Ma c’è un problema irrisolto, fattore imprescindibile se si vuole assegnare un grado al monumento, la gerarchia a far «data di nascita». Sconosciuta. Tanto che, insieme all’analisi stilistica e alla contestualizzazione delle pitture, è stato già affidato all’Iscr (l’Istituto superiore per la conservazione ed il restauro del Mibact) l’incarico di svolgere uno studio approfondito. Al quale farà seguito un convegno che si avvarrà appunto dei risultati di tali analisi.
Gran daffare come si vede (e si prolunga). Che non si limita a mettere in evidenza i recenti lavori. Infatti c’è un «secondo tempo». Che vuole l’«Oratorio rupestre di Marco Simone Vecchio», caposaldo della futura acquisizione al pubblico demanio dell’intera collina di Marco Simone Vecchio, che potrebbe così diventare con i suoi pittoreschi casali l’ingresso sul lato nomentano al Parco dell’Inviolata. Conseguenza, proseguiranno i lavori. Di restauro e valorizzazione.
Grazie all’attenzione di Margherita Eichberg, la Soprintendente per l’archeologia, le belle arti e il paesaggio dell’Area metropolitana di Roma e di Viterbo, per il recupero di misconosciuti e abbandonati (ma importanti) monumenti, il cantiere della Sovrintendenza è stato aperto un paio di mesi fa. Lavori di somma urgenza, necessari per mettere in sicurezza l’«Oratorio rupestre di Marco Simone Vecchio». Sottoposto a doppio vincolo, monumentale e archeologico, l’edificio è nel Parco dell’Inviolata, compresa nell’«Area delle Tenute storiche di Tor Mastorta, di Pilo Rotto, dell’Inviolata, di Tor dei Sordi, di Castell’Arcione e di alcune località limitrofe» (tutta la zona è stata dichiarata di notevole interesse pubblico dopo l’apposizione da parte del Mibact il 15 aprile 2016 del «vincolone» sui 1.700 ettari).
Si è trattato di un «pronto intervento» dettato dalla italica inesauribile emergenza per «rimediare allo stato di degrado e precaria conservazione dell’ipogeo – dice Zaccaria Mari –. Tale stato, già esistente al momento della scoperta, si era accentuato nei decenni successivi generando un preoccupante rischio di crollo (implosione dall’interno) dovuto soprattutto alla perdita di uno dei tre sostegni e al notevole assottigliamento di quello ricavato nel tufo. Inoltre l’accesso, a causa degli scarichi e della vegetazione, era diventato difficoltoso; all’interno terra e detriti rendevano impossibile una documentazione esauriente; il lucernario sul fondo, aprendosi a livello del piano di campagna, rappresentava un pericolo per la caduta di persone e animali; la mancanza di una recinzione esponeva il monumento a possibili ulteriori danneggiamenti e all’incauto ingresso di visitatori. Con i lavori di somma urgenza, quindi, il lucernario è stato messo in sicurezza, l’area è stata recintata, si è sterrato e protetto con palizzate lignee l’ingresso, è stato ripulito e puntellato con sostegni metallici il vano interno».
Lavori che portarono alla «scoperta» della funzione del luogo: una cantina (adattamento consueto in queste località, più di quanto si immagini). Si attraversa un vestibolo antico, celato dalla porta. Dopo aver steso il pavimento, alti quanto i gradini, si costruirono i due bancali paralleli al centro per poggiarvi sopra le botti. Per far ciò venne distrutta la parete di fondo onde ottenere l’ambiente con lucernario, ‘sgrottate’ le pareti laterali (annullando le nicchie con le pitture quasi completamente), aperto il vano a destra dell’ingresso.
Così, l’«Oratorio rupestre di Marco Simone Vecchio» si apre sul lieve pendio meridionale dell’altura, intorno ai casali, interessata dai ruderi della cinta muraria del Castrum S. Honesti, attestato nel 1257. La collina, raggiungibile da via Tacito, inserita nella procedura fallimentare (comunque bloccata dal decreto governativo del 6 aprile) del «Gruppo Bonifaci» – l’ex editore del Tempo, quotidiano poi transitato nelle proprietà della famiglia Angelucci –, si presenta come un’isola inedificata, sfruttata per semine e pascolo, anche a distanza riconoscibile fra i nuovi quartieri di Marco Simone e S. Lucia, per la presenza di casali abbandonati e di profonde caverne scavate in epoca moderna nel banco di tufo.
In precedenza, l’area era appartenuta al monastero romano dei santi Ciriaco e Nicola in via Lata (l’odierna via del Corso); un documento di conferma di beni (bolla papale del 1124) di questo monastero cita, fra altri possedimenti in zona, un’ecclesia Sancti Nicolai, che deve essere verosimilmente identificata proprio con il nostro ipogeo ove il Santo è rappresentato.
Prima del castello, quindi, esistette un insediamento rurale, che si sovrappose a sua volta a un abitato protostorico-arcaico, nel quale si è voluto riconoscere il centro latino di Ficulea, e a un insediamento di età romana, che rimane difficilmente precisabile per mancanza di scavi. Il contesto territoriale, quasi sicuramente rientrante nell’ager della non lontana Nomentum, è comunque caratterizzato da una fitta rete di villae rusticae, collegate da viabilità minore che faceva capo a un’antica strada corrispondente all’odierna Palombarese.
Il resoconto dei «lavori in corso» non può non tener conto della necessaria (strategica si direbbe) rimozione dell’interro che ha permesso di scoprire il livello dell’accesso originario e la parte inferiore delle figure a destra. Inoltre si sono recuperati numerosi frammenti di intonaco dipinto provenienti dalla volta e dalle pareti, che sono attualmente in fase di pulitura nei locali-deposito della Soprintendenza annessi al Museo civico archeologico «Rodolfo Lanciani» di Montecelio.
Si entra nell’ipogeo da una porta con stipiti e architrave in mattoni e soglia di travertino (di reimpiego), realizzata molto probabilmente negli anni Trenta riadattando l’originario vestibolo a pianta rettangolare che dava accesso al sotterraneo, definito da muri intonacati in pietrame di tufo e materiale raccogliticcio. In tale riadattamento, che previde una copertura con travi lignee (rimangono gli incassi sopra la porta), il piano era alquanto rialzato rispetto all’interno, nel quale si scende tramite tre gradini ottenuti con grandi lastre lapidee, anche queste di spoglio.
Il primo tratto di volta risulta crollato ed è stato sostituito, insieme al rifacimento della porta, con una copertura in muratura posta assai più in alto. Ai lati dell’accesso originario sono inserite due colonne marmoree antiche, che dovevano sorreggere un architrave. Davanti si sviluppa un vasto ambiente pseudo-rettangolare (m 10 x 6 ca., alt. 2,50 ca.) intonacato e dipinto, scavato irregolarmente nel punto di passaggio fra un superiore banco di tufo litoide e uno inferiore di materiale piroclastico incoerente. La volta, quasi piana, è oggi sorretta da due soli pilastri che individuano tre navate: uno, a destra, tagliato nella roccia, un altro, a sinistra, formato di elementi lapidei raccogliticci (una colonna liscia di tufo e un blocco rastremato in travertino) e da una fascia di laterizi al posto del capitello. Un terzo pilastro, che doveva essere una colonna lapidea a giudicare dall’incasso circolare presente sulla volta, era situato dopo quello a sinistra. È invece da escludere un quarto pilastro (ipotizzato nella pianta edita in Quilici, Quilici Gigli 1993) prima di quello a destra.
Verosimilmente negli stessi anni Trenta l’ipogeo subì pesanti trasformazioni finalizzate al riuso come cantina: 1). scavo di un locale rettangolare a destra dell’ingresso e di un prolungamento con pozzo-lucernario sul lato di fondo, 2). sgrottamento delle pareti laterali per ricavarvi alla base un gradino, 3). realizzazione nell’intero sotterraneo così ampliato di una pavimentazione in piccole pietre con vaschette per la raccolta di liquidi, 4). costruzione al centro del vano di due bassi muri paralleli. Fu allora rimosso, se già non mancava prima, il terzo pilastro.
La volta, concepita come “volta celeste”, conserva ancora buona parte della stesura di intonaco con numerose stelle di colore rosso a otto punte e qualche stella più piccola di colore blu. Dei tre clipei bordati di fasce colorate che si susseguivano sul soffitto della navata centrale resta solo quello presso l’entrata, interrotto però dal crollo della volta, che forse racchiudeva un angelo (Bertelli). Gli altri due, vandalicamente strappati nel 1978, raffiguravano uno il busto di Cristo pantocratore benedicente, con nimbo crociato e libro nella mano sinistra, e l’altro l’Agnus Dei.
Le pitture sono state datate (Bertelli) al XIII secolo, tranne la croce greca, attribuita all’XI, ma al di sotto affiorano in alcuni punti (ad es. sotto la croce) le tracce di una decorazione più antica, scalpellata per far aderire la nuova, che potrebbe risalire all’Alto Medioevo.
Le suddette modifiche hanno purtroppo cancellato quasi completamente le nicchie curvilinee poco profonde che dovevano susseguirsi su ciascun lato (ne restano soltanto due a destra e una a sinistra) e asportato totalmente il lato di fondo. Questo è tuttavia ricostruibile in base all’impronta lasciata sulla volta, dalla quale si desume che terminava in corrispondenza delle navatelle laterali con pareti rettilinee dotate di nicchia e in corrispondenza di quella centrale con un piccolo vano quadrato, che doveva contenere l’altare. Sul soffitto, appena arcuato, del piccolo vano è tuttora dipinta una croce greca gemmata che era compresa fra due clipei ed elementi vegetali.
Nella parte alta delle pareti rettilinee sopravvivono unicamente lacerti di teste nimbate: il Bertelli ipotizza a sinistra un angelo, a destra, ove la nicchia è bordata da un motivo a nastri intrecciati, un Cristo con nimbo crociato insieme a una o due figure.
Nella parete laterale destra la vecchia documentazione fotografica mostra dentro la penultima nicchia l’estremità superiore di una crocifissione, ora del tutto scomparsa; nell’ultima nicchia rimane solo il nimbo di una di due figure. Tracce di pittura si scorgono anche nella prima nicchia (coincidente con un preesistente cunicolo) accanto all’ingresso.
All’inizio della parete sinistra erano distinguibili negli anni Settanta, entro un riquadro rosso, una figura inginocchiata con l’aureola (oggi più evanescente) e una molto deteriorata, che il Bertelli riferisce a una scena di flagellazione. Lungo la parete si riconoscono agevolmente solo due nicchie: nella più conservata erano due figure affrontate con nimbo, nell’altra almeno una figura e tra le due nicchie un’altra figura.
Infine sulla parete in muratura a destra dell’ingresso si trovano tre immagini di santi in piedi, attualmente molto meno conservati rispetto agli anni Settanta, racchiusi entro un riquadro rosso ornato da un meandro bianco: sulla sinistra è S. Nicola con il pastorale e la mitra (già identificato dalla scritta S. Nicolaus, resa ormai illeggibile, al centro altro santo nimbato, a destra uno barbato. Sopra la cornice superiore il Bertelli lesse anche la scritta S. Sebastianus.
P.S.: la parte «specialistica» dell’articolo è stata ricavata in modalità Creative Commons dal sito dei Beni culturali – http://www.sabap-rm-met.beniculturali.it/it/430/scavi-ricerche-valorizzazione-e-musealizzazione/1808/guidonia-montecelio