di TOMMASO VERGA
FAREBBE UNA FORTUNA l’autore che volesse cimentarsi con la rappresentazione della commedia «Le Acque Albule a mollo nei laghetti». Tribunali, ricorsi in appello, contenuti delle sentenze difficilmente applicabili (come eseguire il divieto di bagnarsi contemplato nel provvedimento? anche in termini di presenza e di abbigliamento, come dovrebbe agire l’ufficiale giudiziario?). Non bastasse, ora sarà necessario far di conto con la nuova puntata, rappresentata dalla sentenza del Tar del Lazio (Tribunale amministrativo regionale) del 21 febbraio.
Un verdetto che costituisce capitolo a sé, che ha radicalmente modificato la trama della storia, scompaginando sentenze e ammennicoli che l’avevano preceduta. Fissando un ancoraggio dal quale sarà assai difficile prescindere. Perché, a questo punto, non accogliendo il ricorso della «spa Acque Albule» (assistita dagli avvocati Andrea Guarino ed Elenia Cerchi) contro la Regione Lazio, la Provincia di Roma (rispettivamente difese dalle avvocate Rosa Maria Privitera e Giovanna Albanese) e i “laghetti del Barco” – anzi, per l’esattezza, uno soltanto, l’«Associazione culturale Bambù» di Franco Romanzi –, ha concluso per un verdetto… a favore di nessuno. Una sequenza di provvedimenti giudiziari che trascinano la vicenda in una commedia degli equivoci.
L’atto si fonda sul ricorso della «spa Acque Albule» che chiede al Tar l’annullamento d’un ipotetico provvedimento regionale di tacita autorizzazione alla derivazione di acque, convenendo nel relativo procedimento la Regione Lazio e l’«Associazione culturale Bambù».
Replica la Regione Lazio: «non abbiamo rilasciato alcuna autorizzazione in proposito». L’associazione Bambù conferma di non aver ottenuto alcuna autorizzazione dalla Regione, bensì dall’allora Provincia di Roma (ora Città metropolitana) per la derivazione di acque comuni e non termali.
Il colpo di scena: in corso di giudizio la stessa «Acque Albule spa», dà atto che la Regione non ha rilasciato autorizzazioni, pur glissando sul fatto assolutamente pacifico che, in ipotesi, la Regione avrebbe potuto provvedere soltanto in presenza di richiesta di autorizzazione per l’utilizzazione di acque minerali/termali, quelle, per intendersi, destinate all’uso terapeutico.
Ma se il provvedimento impugnato dalla «spa Acque Albule» viene negato dalla stessa «spa Acque Albule» qual è il motivo del ricorso della «spa Acque Albule»?
Il Tar deve comunque decidere. Lo fa: rendendosi conto che il provvedimento impugnato non esiste, quindi non può né annullare né confermare. In sostanza: se non mi date la farina, che pane vi faccio ? Cessa la materia del contendere.
Resta sempre il fatto, ormai noto ed incontestato, che neppure la «spa Acque Albule» ha l’autorizzazione regionale per l’uso “termale” delle acque termali delle sue piscine, perché, la stessa Regione Lazio, fin dal 1984, le ha declassate a comune acqua di piscina (quelle clorate per intendersi, in quanto per legge devono essere batteriologicamente pure).
Dal che, non si riesce proprio a comprendere quale esclusiva avrebbero mai potuto violare i gestori dei “laghetti”, che non hanno mai avuto pretese di uso termale delle loro bolle sorgive, limitandosi a rinfrescare i loro associati dalle calure estive.
“ACQUE ALBULE” RIMANE A SECCO
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