di TOMMASO VERGA e GIULIANO GIRLANDO
UNA STRADA PUO’ CONDURRE VERSO PIU’ METE. Quella che porta alla sede della polizia di Stato a Villalba, nel Comune di Guidonia Montecelio, nell’attinenza tra il servizio e il nome di Antonio Ammaturo, direttamente contiene l’immagine della circostanza che l’ha generata. Il che porta a illustrare non soltanto chi fosse Antonio Ammaturo ma perché gli è stata intitolata la via. Con la rievocazione d’una vicenda che, per quanto comune nella strategia del tempo (siamo ai primi anni Ottanta, «anni di piombo»), per la sua unicità ha rappresentato un avvenimento tra i più terribili del nostro Paese, l’omicidio del vicequestore Antonio Ammaturo e di Pasquale Paola, il suo autista, assassinati in un contesto non compreso pienamente nella formula classica, “di matrice terroristica”.
Perché, quanto accaduto il 15 luglio 1982 a Napoli, seppure somigliante ai molti della medesima «categoria» in quella stagione, non si presta a similitudini. Né sovvengono esiti di indagini né resoconti a chiarire il quesito inevaso sulle ragioni dell’alleanza tra le Brigate rosse e la camorra di Raffaele Cutolo, organizzatori e autori degli omicidi. Ignoto tuttora cos’altro contenesse il piano, quali ulteriori obiettivi si ponesse.
Nella mancanza di risposte da parte dello Stato, totale, suppliscono ipotesi nelle più diverse direzioni. Tra le motivazioni dell’omicidio, persino quella che Antonio Ammaturo avesse mancato di rispetto a O’ Professore, leggi Raffaele Cutolo, definito, in una intervista a Paese sera, «un cialtrone». Oppure conseguenza di un blitz nel castello di Ottaviano, per arrestare il figlio di Cutolo, Roberto. Vendette insomma. Ma per eseguire le quali occorreva il “gruppo di fuoco” delle Brigate rosse?
Ipotesi più «organica» sugli scopi del “patto”, possibile (probabile…) che la camorra, nel disagio sociale estremo di quel momento a Napoli, intendesse mostrarsi punto di sintesi in grado di offrire condizioni di sopravvivenza a chi aderisse a «quel» terrorismo. Parliamo di una città che ribolliva di fermenti e di malcontento, nella quale si susseguivano cortei di protesta dei terremotati, dei senzatetto, dei disoccupati. L’assassinio di Antonio Ammaturo, poteva quindi rappresentare una sorta di prova generale per la nascita d’un nuovo «Stato del Meridione» (possibile l’adesione anche della calabrese ‘ndrangheta), terra di sopravvivenza che Raffaele Cutolo avrebbe garantito alle nuove leve arruolate nella fase del post-terremoto. Altro che competizione con i «disoccupati organizzati» di Mimmo Pinto!
Comunque non dev’essere escluso l’obiettivo «minore», che l’assassinio dipendesse dalla necessità per la camorra di avere mani libere nell’accaparramento dei capitali pubblici e degli appalti destinati alla ricostruzione. Con le Brigate rosse, guardie armate delle «operazioni». Un proposito minimo rispetto all’altro del “nuovo Stato”. Che non a caso si fece scudo del sequestro di Ciro Cirillo, ex assessore alla ricostruzione campana post terremoto. In proposito, rivelatrice la risposta a un giornalista del GR2 che il 2 novembre 1981 chiese ad Ammaturo, promosso quell’anno a capo della Squadra mobile di Napoli, come avrebbe potuto arginare l’ecatombe quotidiana degli ammazzati nella guerra tra clan camorristici: «E’ semplice. Basta arrestare tutti i politici fino all’ultimo consigliere di circoscrizione per evitare le lottizzazioni della ricostruzione post-terremoto» la replica. Affermazione certo non gradita da Cutolo. Di qui, l’affidamento alle Br del compito dell’andata a buon fine dei propositi. Intanto togliendo di mezzo il «nemico» dichiarato. L’affitto alle Br del «servizio di guardia» venne compensato con 7 miliardi e mezzo di lire.
Una «trattativa» probabile causa dell’attentato ad Antonio Ammaturo e a Pasquale Paola, che di contro riportò alle sue attività l’esponente campano della Democrazia cristiana. Partito che apparve scandalizzarsi delle «regole» dettate da iniziative consimili. Tanto da domandarsi, è inevitabile, perché Aldo Moro fu lasciato in balia delle stesse Brigate rosse, fino all’estremo saluto. In quel caso la «trattativa» apparve e risultò fuori dalle «regole».
Giovanna Ammaturo: dopo il conflitto a fuoco, i terroristi fuggirono; i due feriti tra loro li curò un infermiere poi messo su un treno per Roma. Con il pullman venne a Guidonia Montecelio per nascondersi nel mio palazzo
Per giungere a una spiegazione, ci si è chiesti, ripetutamente, se il vicequestore dovesse essere obiettivo della camorra o delle Brigate rosse. La conoscenza del «patto» avrebbe portato alla spiegazione su come ci si arrivò, sul motivo fondante l’union sacrée tra formazioni di tanta discrepante provenienza, origine, storia, radicamento sociale. Non solo. Perché altrettanto motivo di interesse avrebbe riguardato l’intreccio con la liberazione di Ciro Cirillo, il democristiano assessore campano.
Salvo ipotesi e sospetti, tutti legittimi (ci mancherebbe…), nemmeno Giovanna Ammaturo, consigliera comunale di Guidonia Montecelio – la città che il 14 aprile ha intitolato ad Antonio Ammaturo la strada di Villalba –, e il fratello Emilio, nipoti del vicequestore ammazzato a Napoli, conoscono la quintessenza della vicenda. Dal dialogo, si ricava però il tratteggio della fisionomia del «poliziotto che nonostante le promozioni amava essenzialmente la pratica attiva».
«Dietro al delitto Ammaturo si sono agitate trame poco chiare – l’esordio –. Storie di intrighi anche internazionali legati al rapimento ed al misterioso rilascio di Ciro Cirillo, ex assessore alla ricostruzione campana post terremoto. Ci fu uno scellerato patto tra la NCO (la Nuova camorra organizzata, ndr) di Raffaele Cutolo per la sua mediazione (deceduto il 17 febbraio, il capo camorrista ha portato con sé, nella tomba, i particolari del “patto” con le BR, ndr), i servizi segreti italiani e brigatisti. L’uccisione di Ammaturo fu tra le merci di scambio per il rilascio di Cirillo (il politico venne rapito il 27 aprile del 1981 e rilasciato il 24 luglio, ndr). Senza dimenticare i 7,5 miliardi di lire che in tre valigie furono portati a Roma per essere consegnati a un emissario dei terroristi».
Come avvenne l’attentato? «Metà luglio del 1982. In piazza Nicola Amore, sotto casa, nel capoluogo campano, da poco trascorse le 16, zio e Pasquale Paola entranoi nell’auto di servizio. Una 128 Fiat sbarrò loro il passo – proseguono Giovanna ed Emilio Ammaturo –, scesero sei terroristi, e, tutti insieme, aprirono il fuoco crivellando di colpi il veicolo e i passeggeri. 108 i proiettili ritrovati dopo l’autopsia di Antonio Ammaturo. Che lasciò la moglie, zia Ermelinda, e tre figlie: Gilda, Maria Cristina e Graziella. Inseguiti dai “falchi” della polizia, nonostante un conflitto a fuoco, i terroristi riuscirono a fuggire tra i vicoli di Forcella aiutati dalla camorra; due di loro restarono feriti. Allora, gli altri brigatisti rapirono un infermiere che liberarono davanti alla stazione ferroviaria mettendolo su un treno per Roma. Arrivato, il sanitario prese il pullman, venne a Guidonia Montecelio per nascondersi nel mio palazzo al piano di sopra, dal parente, già consigliere comunale cittadino. .
Antonio Ammaturo, dopo aver optato per la polizia anziché far carriera in magistratura, al momento dell’omicidio, aveva avuto modo di occuparsi di criminalità organizzata e terrorismo? La “gavetta”, se ricordiamo, risale a Giugliano. «Sì, Giugliano, il commissariato del popoloso hinterland napoletano che diresse per otto anni. Allora come purtroppo ancora oggi, un centro pesantemente condizionato dalla camorra, comandava a quel tempo Alfredo Maisto. Zio, anni dopo, raccontò che appena insediatosi, incontrò il boss in un motel. Maisto sostenne di essere una brava persona, perseguitato dalla polizia, ed a riprova, gli mostrò delle foto che lo ritraevano in compagnia di alcuni uomini politici ad un congresso della Democrazia cristiana. Ammaturo non si lasciò intimidire dalle amicizie “potenti” che il boss millantava, approfondì le indagini e lo mandò in galera».
«Dopo la camorra gli toccò la ‘ndrangheta – proseguono Giovanna ed Emilio Ammaturo –. Inviato a dirigere la questura di Reggio Calabria, commissariati in zone ad alta intensità di presenze dell’organizzazione criminale. A Gioia Tauro arrestò sei latitanti in una sola notte durante una battuta in Aspromonte. A Siderno sequestrò un quantitativo enorme di sigarette di contrabbando nascosto di un cimitero. Seguì, nel 1970, la questura di Frosinone con il commissariato di Cassino. Qui Antonio Ammaturo si trovò di fronte gli iniziali fermenti eversivi che cominciavano a serpeggiare nel grande stabilimento Fiat. Con i primi volantini con la “stella a 5 punte” nei quali veniva definito “boia di Stato”».
Infine, nel 1981, la promozione a capo della Squadra mobile di Napoli: «Un anno horribilis per la città, insanguinata dallo scontro tra la “Nuova camorra organizzata” di Cutolo e la “Nuova famiglia” di Nuvoletta e Bardellino, l’anno del sequestro Cirillo, delle rivolte nel carcere di Poggioreale, degli atti terroristici nei quali rimasero vittime gli assessori Amato e Delcogliano. Era l’anno del morto al giorno negli scontri tra clan rivali».
Ricercato dal 2002 dopo la condanna all’ergastolo, Renato Cinquegranella, l’uomo che sigillò l’alleanza tra le Brigate rosse e la camorra
Terrorismo e terroristi. Quello che, nelle cronache di questi giorni, con l’inizio del processo per l’estradizione dalla Francia, ripropone a mo’ di Settimana Incom, sembianze, volti, ritratti sperduti, lontani, nomi e cognomi in larga misura dimenticati. Diversamente dagli esecutori degli omicidi di Antonio Ammaturo e dell’agente Paola. Dopo 8 mesi vennero assicurati tutti alla giustizia. Condannati all’ergastolo, Vincenzo Stoccoro, Emilio Manna, Stefano Scarabello, Vittorio Bolognesi, Marina Sarnelli, hanno beneficiato della legge sui pentiti.
Un elenco dal quale non si ricava nulla che possa interessare l’ordito che portò all’alleanza BR-camorra. Della quale invece potrebbe svelare i particolari Renato Cinquegranella, camorrista, ricercato dal 2002, condannato all’ergastolo, considerato l’uomo dell’accordo tra la camorra e le Brigate Rosse. A dire di Giovanni Melillo, capo della procura di Napoli, nella conferenza stampa di fine anno 2020, colui che «diede supporto logistico agli assassini delle Brigate rosse che avevano appena ucciso il commissario Antonio Ammaturo».
Altro camorrista che dovrebbe avere cognizioni certe su origini e motivazioni del «patto» Br-camorra, dovrebbe essere Pasqualino Scotti, luogotenente fidatissimo di Raffaele Cutolo. Sono occorsi trent’anni di ricerche e indagini ma il 26 maggio del 2015 a Recife in Brasile, il camorrista con il falso nome di Francesco De Castro Visconti è stato arrestato. A ottobre, il Supremo Tribunal Federal brasiliano (Stf) ha formalmente autorizzato per due volte la sua estradizione dal momento che non è stato ritenuto un perseguitato politico pur disponendo però che la sua pena venisse commutata a 30 anni, ovvero il massimo previsto in Brasile per reati di tale natura.
Il 10 marzo 2016 il rientro in Italia con un volo da Rio de Janeiro, accompagnato da agenti dell’Interpol e della Squadra mobile di Napoli, ed immediatamente trasferito nel carcere romano di Rebibbia in attesa di essere interrogato dagli inquirenti in merito alla sua rocambolesca evasione, al delitto Calvi e al sequestro Cirillo per la cui liberazione fu principale protagonista.