di TOMMASO VERGA
IL TRIBUNALE DI PALERMO (sentenza-ordinanza ZZ89/82): «Riferendo sul Madonia (Francesco, ndr), i CC. hanno posto in evidenza che egli aveva partecipato, con i figli Giuseppe e Antonino, al matrimonio di Grizzaffi Giovanni, nipote di Salvatore Riina, celebratosi il 6.9.1973 a Corleone, e che era proprietario, tra l’altro, in largo San Lorenzo, di un appartamento sito al 5° piano di uno stabile costruito da Pilo Giovanni (cognato di Gambino Giacomo Giuseppe, entrambi “uomini d’onore” della famiglia di San Lorenzo-Resuttana) nel quale abitavano sotto falso nome Riina Salvatore ed il cognato Bagarella Leoluca».

Salvatore Riina

A uno sguardo distratto, Giovanni Pilo appare come un personaggio “minore” rispetto a quelli (per rimanere nei caporali) di Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, Francesco Madonia. Invece no. Almeno per gli uomini della Direzione investigativa antimafia. Per i quali evidentemente è stata considerata parte di rilievo garantire ospitalità a mafiosi come Riina e Bagarella. Non ignorando, evidentemente, che i due mammasantissima si fidavano di Giovanni Pilo.
Una quantità di prove che ha portato la DiA, a chiedere ed ottenere, a fine-indagine, un «decreto di confisca» a carico dell’imprenditore edile palermitano residente a Guidonia Montecelio.
Un provvedimento che costituisce l’ennesima controprova sulla presenza delle organizzazioni criminali nella Città del volo. La mafia siciliana in prevalenza. In passato, Luciano Liggio e Natale Rimi; la «famiglia» di Salvatore Rinzivillo di Gela nella storia recente; non mancano comunque camorra e sacra corona unita (le costruzioni di Pichini, la borgata più giovane di Guidonia, lo provano). Tutti presenti, naturalmente, nelle modalità previste dalla convenzione virtualmente sottoscritta dai domiciliati in ogni dedicato usbergo che si rispetti. Anche in una città come Guidonia Montecelio, «attaccata a Roma», risulta comune la replica «non ne sappiamo nulla», «non ce ne siamo accorti». Mentre sicuramente c’è chi ha offerto la “copertura” indispensabile.

Da sinistra, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto

Il decreto di confisca, come detto, ha consentito alla Prima sezione penale e misure di prevenzione del tribunale di Palermo, di mettere fine alle attività di Giovanni Pilo, 83 anni. Il cui nome riporta indietro nel tempo, all’epoca del maxiprocesso, al termine del quale venne condannato a 7 anni per mafia. L’ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio, del 9 novembre 1985, 8.000 pagine, risulta firmata dal capo dell’ufficio istruzione di Palermo Antonino Caponnetto, scritta da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
A seguire, la «Sezione misure di prevenzione» del tribunale di Palermo gli confisca un patrimonio il cui valore viene stimato in 40 milioni di euro. Secondo l’accusa, una fortuna costruita negli anni del “sacco” di Palermo con l’appoggio dei corleonesi.
La requisizione ha interessato la villa di residenza, alcuni beni intestati alla coniuge e al figlio, il capitale sociale di 5 società con sede in Roma; quote di partecipazione in 2 società immobiliari e costruzioni edili; 2 alberghi a Ladispoli e a Guidonia Montecelio; 38 immobili, alcuni locali commerciali e 4 terreni ubicati fra Palermo, Terrasini, San Vito lo Capo, Roma e Dello (Bs); infine, una grande villa a Mondello (nella foro in alto); 6 conti correnti bancari e 5 polizze vita.
Il collegio, presieduto da Raffaele Malizia, ha accolto la proposta del direttore della Direzione investigativa antimafia, Maurizio Vallone, del capo centro di Palermo Filippo Fruttini e del suo vice Paolo Azzarone, e del procuratore aggiunto Marzia Sabella e del sostituto Dario Scaletta.
Stando alle carte giudiziarie, Giovanni Pilo vanta trascorsi criminali di lungo corso: uomo d’onore della famiglia mafiosa di Resuttana (coniugato con Anna Gambino, sorella di Giacomo Giuseppe detto “‘u’tignusu”, già capo del mandamento di San Lorenzo nonché componente della Commissione provinciale di Palermo (la cosiddetta “Cupola”), è stato sottoposto a «sorveglianza speciale di Pubblica sicurezza nel 1976 e nel 1985 perché gravemente indiziato di appartenere a Cosa nostra. Sospetto divenuto prova grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno e Salvatore Anselmo.
«Le articolate indagini svolte dagli investigatori della Dia – precisa un comunicato dell’antimafia –, hanno ricostruito l’ascesa imprenditoriale di Giovanni Pilo, schieratosi nel corso della seconda guerra di mafia degli anni ’80 dalla parte dei Corleonesi i quali, risultati vincitori, scelsero di farsi affiancare anche da costruttori per il controllo dell’urbanizzazione selvaggia ed il conseguente avvio di progetti speculativi ai danni del capoluogo siciliano (il cosiddetto “sacco di Palermo”). Ciò ha consentito al proposto di conseguire illeciti vantaggi nello svolgimento della propria attività d’impresa, a tal punto viziata dall’appoggio della consorteria criminale da poterlo definire vero e proprio “imprenditore mafioso” collettore degli interessi di cosa nostra nel settore edile ed immobiliare – prosegue il comunicato –. Gli approfonditi accertamenti patrimoniali effettuati dalla Direzione investigativa antimafia hanno inoltre evidenziato una netta sperequazione fra i redditi dichiarati dal Pilo e gli investimenti sostenuti, da ritenersi pertanto frutto o reimpiego di capitali illeciti. La confisca che ha colpito beni intestati al proposto nonché alla coniuge e al figlio già sottoposti a sequestro dalla Dia al momento dell’arresto, nel giugno 2020».