di TOMMASO VERGA
ENTRAMBI SI CONOSCEVANO. DA TEMPO. Una frequentazione dovuta a motivi istituzionali. Lei, Jessica Faroni, presidente dell’Aiop (lo è tuttora), la Confindustria della sanità privata per intendere, ambito che nella regione la vede protagonista assoluta (e, da qualche concorrente, decisamente invidiata). Mentre lui rappresentava la “controparte”, in quanto segretario del “Sicel”, sindacato autonomo nato da una scissione della Cisnal (l’organizzazione di riferimento del MSI, il Movimento sociale, nel 1996 divenuta UGL). Origine del nesso, la firma del contratto collettivo della sanità privata Sicel-Aiop del 21 settembre 2012. Una «convenzione» mostratasi continuativamente di difficile (oltre che faticosissima) conclusione.
Le firme risalenti a dieci anni fa convenivano sull’esclusione di Cgil-Cisl-Uil. Il comunicato privo di enfasi di Andrea Paliani: «E’ un accordo importante che permette al Sicel di essere presente al tavolo delle trattative per il personale del comparto sanità privata delle strutture associate all’Aiop.
«L’accordo – si proseguiva – è stato fortemente voluto dalla nostra Organizzazione Sindacale, perché siamo convinti che il nostro apporto sia fondamentale per migliorare le condizioni dei lavoratori. Il nostro primo interesse è senza dubbio salvaguardare il posto di lavoro degli addetti e di migliorarne le condizioni, ma allo stesso tempo di preservare il reddito economico della struttura garantendo la continuazione delle attività lavorative» (dal sito atuttadestra.net). Odor di corporazioni.
Senonché, nel settembre dell’anno successivo, la concordia mostrata nel 2012 viene meno. Perché il “Sicel” denuncia la gestione dei contratti di solidarietà in vigore nel “Gruppo Ini”: «la pratica non corrisponde alla normativa – si legge nell’atto –, i lavoratori figurano presenti alle lezioni e contemporaneamente operano nei reparti. Persino in orario straordinario».
A seguire Andrea Paliani provvede altresì Enrico Massimo Baroni, deputato 5stelle, che in un’interrogazione afferma: «alcuni dipendenti hanno sollevato dubbi anche sull’applicazione della cassa integrazione guadagni on the job, hanno dichiarato che nel periodo di cassa integrazione firmavano al volo alcuni fogli presenza e tornavano immediatamente al lavoro nei reparti assegnati».
Conseguenti alle denunce e alle interrogazioni parlamentari, vengono avviate le indagini affidate ai carabinieri su disposizione del pm Paolo D’Ovidio (poi traslocato a Genova su propria richiesta). Indagini i cui contenuti formano oggetto del procedimento odierno, avviato dal sostituto Paolo Ielo e dalla pm Luigia Spinelli. Così, mentre si archivia il procedimento d’origine di Paolo D’Ovidio, nello stesso lato giudiziario in sostanza, vengono riesumati i medesimi documenti.
A non «star sotto botta», a novembre del 2019 è Cristopher Faroni, si presume oggi parte civile insieme con la sorella. Il direttore generale del «Gruppo INI» denuncia il tentativo di ricatto, operato da personaggi che si scoprirà ben conosciuti nel «Gruppo INI», interessati a rimediare 250mila euro l’anno (oltre un cosiddetto «fuoribusta» variabile) mediante l’assunzione di un presunto computista di fiducia. Un personaggio al vertice d’una ipotetica graduatoria dei contabili quanto a capacità, visto che la «domanda» di assunzione è accompagnata dalla descritta richiesta di compenso.
Alla pretesa seguono tre arresti (ai domiciliari). Che interessano, si legge sulla cronaca di hinterlandweb di quel tempo*, Giuseppe Costantino, maresciallo dei carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro (che, a quanto pare, avendo condotto le indagini sulla presunta truffa operata dal «Gruppo INI» a proposito della cassa integrazione e contratti di solidarietà dei dipendenti, prometteva di spendersi per alleggerire le indagini sulla società; accuse dalle quali il «Gruppo INI» è stato prosciolto in istruttoria); insieme con Andrea Paliani, il segretario del Sicel, e Alessandro Tricarico, il commercialista che il «Gruppo INI» avrebbe dovuto assumere (che, comunque, ha già patteggiato una condanna a due anni).
A completare la narrazione il nome di Davide Barillari. Indagato, semplicemente indagato (non altro si ricava continuando la conoscenza…), – in una posizione evidentemente distinta dai tre consegnati ai «domiciliari» – c’è anche lui, il consigliere della Regione Lazio, componente della commissione sanità, a quell’epoca ancora nel movimento 5 Stelle. Il «colloquio-madre» che sfocia nell’addebito avviene con il sindacalista del Sicel.
Il quale gli comunica «di essere intenzionato a richiedere un’ispezione presso alcune cliniche del “Gruppo INI” che risultano sprovviste di determinate certificazioni, in maniera tale da poter poi procedere al commissariamento della società». Se le cose stanno come Paliani descrive è compito del consigliere regionale farsi protagonista, al contrario… è quanto risulta. Rendendo evidente la mancata correità del consigliere regionale, che infatti non risulta nel processo. Diversamente dagli altri.
I cui difensori dovranno replicare alla richieste della pm Luigia Spinelli che per gli addebiti «induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e violazione del segreto d’ufficio, nonché tentata violenza privata», ha formulato le richieste di 6 anni e 4 mesi per il carabiniere Costantino; 5 anni e 4 mesi per Andrea Paliani. © RIPRODUZIONE RISERVATA – info@hinterlandweb.it
* https://www.hinterlandweb.it/wordpress/2019/11/un-carabiniere-un-commercialista-e-un-sindacalista-in-custodia-cautelare-ai-domiciliari/
LA PARZIALE CONCLUSIONE del procedimento a piazzale Clodio, non ha avuto effetti sul «va e vieni» con i luoghi dove si amministra la giustizia. Perché, come ha dettagliatamente descritto tutta l’informazione – con i nuovi, recenti, limiti consentiti – è stato aperto a Velletri un diverso procedimento interessante Jessica e Cristopher Faroni, unitamente alle altre figure di vertice del «Gruppo INI». Entrambi i fratelli risultano indagati da quel tribunale stante l’accusa di «truffa e false fatturazioni» formulata dai pm Rita Caracuzzo e Vincenzo Antonio Bufano su fatti contestati relativi alla «casa madre» di Grottaferrata. Stando alla cronaca, il Nas dei carabinieri ha sequestrato oltre cinquemila cartelle cliniche e 10 milioni di euro. Non si va oltre per rispetto dei diritti degli indagati.