di TOMMASO VERGA

Roberta Lombardi, capogruppo 5stelle in Regione Lazio

«PROVA-ORACOLO» SULLA scissione di Matteo Renzi dal Partito democratico (e non solo): quanto incide nell’organizzazione della politica e dei partiti nelle periferie del Paese? Una divisione sulla quale pesano certamente gli adeguamenti necessari ad accroccare l’ultimo venuto. Ed anche, di concerto, le ambizioni dei singoli che troveranno ristoro nelle commissioni, in titoli (non onorifici), in capigruppo e presidenze, incarichi e in, perché non?, qualche assessorato. Il che richiede tempo – la voglia certo non manca – per essere «gestito».
La domanda: Matteo Renzi se n’è andato dal Pd, chi ci rimette? Matteo Renzi o il Pd?
L’osservatorio che si dovrebbe prestare, almeno a un videoclip frettoloso, è la Regione Lazio. Nella quale, dopo qualche mese di interruzione del girotondo, è stata riparata la porta girevole. Così, mentre i cronisti interrogano – «lei resta nel Pd?», e, specularmente, «va con Matteo Renzi?»: non ottenendo nessuna risposta in un senso e nell’altro –, i terremoti sono ricominciati. Però altrove. Vien da dire «forza Italia viva». Bizzarrie della politica. Forse.

Lorenza Bonaccorsi, è entrata nel governo

Prima di esaminare lo stato dei partiti regionali, necessita l’aggiornamento sull’esecutivo, la descrizione di mutamenti in teoria non tranquillizzanti il Pd e in particolare il presidente Nicola Zingaretti, rimasto senza i due assessori Pierpaolo Manzella e Lorenza Bonaccorsi, saliti al governo, all’Economia il primo, ai Beni culturali l’altra (con delega al Turismo, Franceschini ha ripristinato la sigla Mibact).

Le ragioni del problema possono rifarsi a Matteo Renzi (con almeno una consigliera che sta riflettendo se seguirlo in «Italia viva») e a Giovanni Cangemi, che ha lasciato il gruppo misto per tornare in Forza Italia. Due unità in sottrazione possono rendere perigliosa la rotta della giunta. La quale, non va dimenticato, è risultato di un’«anatra zoppa» ossia di una «non maggioranza» di 25 consiglieri, uno in meno dei 26 dell’opposizione – 5stelle e centrodestra –, come fissato dalle elezioni del 4 marzo 2018. Deficit che venne provvisoriamente risolto con l’ingresso in maggioranza dell’ex leghista Enrico Cavallari e di Giovanni Cangemi. Il quale ora ha deciso di tornare in Forza Italia.
Si diceva «in teoria» perché la condizione è in evoluzione. Infatti, le recenti vicende in aula (dopo una verifica del numero legale richiesta dal centrodestra una decina di giorni fa) hanno portato la maggioranza a 28 unità. Due considerazioni. Sulla quantità che sottrae a pericoli di inabissamento, e sulla politica: per arrivare a ventotto occorrevano i voti del movimento 5stelle. Si tratta della manifestazione più esplicita dell’avanzamento del confronto tra dem e grillini.
Che non s’è tradotto in firma nonostante Roberta Lombardi, capogruppo 5stelle, stimoli la sensazione di voler completare con Nicola Zingaretti i termini dell’alleanza con il centrosinistra (ignorando gli insulti che piovono attraverso il profilo facebook del «nemico» Davide Barillari). Obiettivo da cogliere senza provocare conflitti nel suo partito. E’ come se tra Luigi Di Maio e la Lombardi si fosse convenuto di attendere la maturazione di una strategia di più ampio respiro, nazionale, prova d’esame le elezioni regionali. Nella quale il Lazio dovrebbe avere la funzione di «ritorno sul futuro» per le Regioni-apprendiste.

Per semplificare. Prioritariamente si definisce il possibile accordo 5s-Pd in Umbria (si vota domenica 27 ottobre); domani la piattaforma Rousseau deciderà i candidati 5s mentre il patto col Pd non sarà sottoposto a referendum. Vengono poi la Calabria (non ancora fissata la data; nel 2014 le elezioni regionali si tennero il 23 novembre) e, possibilmente, l’Emilia Romagna (dove si potrebbe votare a gennaio 2020). Uno schema. In qualche misura rispondente all’«autorizzazione» del capo politico 5stelle per la Pisana, dove i rapporti positivi tra le due formazioni – a cominciare dal «patto d’aula» con l’assegnazione di due commissioni «strategiche» a presidenti grillini –, hanno superato abbondantemente il «periodo di prova». Solo a quel punto, definiti i termini delle tre consultazioni elettorali, nel «pacchetto» entrerebbe il Lazio.

Matteo Salvini, ministro dell’Interno, con Giovanni Toti al Papeete beach

Invece, per altra latitudine, nella Regione Lazio neanche unire i puntini con il tratto di penna riuscirebbe a individuare l’antidoto alle divisioni. Con una originalità però. La pratica dà un responso privo di dubbi: mentre si è intenti a perlustrare la profondità della scissione renziana, nel Consiglio regionale ad andarsene dalla casa-madre sono i berlusconiani (da questo punto in poi, si consiglia il lettore di dotarsi di un antimaldistesta). Gli eletti Fi il 4 marzo 2018 erano sei (più l’«indipendente» Stefano Parisi), oggi soltanto Simeone, Cartaginese e Cangemi sono rimasti fedeli al Cavaliere. In tre.

Di converso, la cronaca registra l’uscita di Antonello Aurigemma, Adriano Palozzi e Pasquale Ciacciarelli. Obiettivo, la formazione «Cambiamo!», il partito di Giovanni Toti. Errore. Perché, nonostante le dicerie iniziali lo volessero insieme agli altri, Aurigemma ha invece preso la strada meno impervia, direzione Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Il che ha causato la mancata formazione del nucleo totiano in Consiglio. Nel Lazio lo Statuto fissa in tre eletti il numero minimo per formare un gruppo consiliare autonomo, cosicché gli ex forzisti si sono messi alla ricerca del terzo. Che sarebbe stato possibile individuare da subito se tra i due ex e Giovanni Cangemi, l’altro eletto di Fi, fosse in corso un qualche feeling. Così non è. Al punto che, per dispetto, l’ultimo ha deciso di abbandonare il «misto» e rientrare in Forza Italia. Cosicché, come detto, i consiglieri da due sono saliti a tre.

Claudio Durigon

Per illustrare come si muovono i rappresentanti degli elettori, i due reduci totiani hanno provato a percorrere la via alternativa. Proponendo all’ultragrillino Davide Barillari (la definizione è di Repubblica) di fare il terzo così da permettere la formazione del gruppo consiliare. Si ignora cosa abbia risposto l’interpellato (anche se la replica dovrebbe essere stato il rifiuto).
Per concludere, la notizia da «interno partito», la nomina di Claudio Durigon, ex sindacalista dell’Ugl (la Cisnal di una volta), a coordinatore della Lega di Salvini a Roma. Una garanzia per il capitano. Dimostrata al punto di partecipare al «Papeete Tour» di Matteo Salvini a Milano Marittima. Ovviamente, non una scelta visto che Durigon vive sul Tirreno, a Latina. Che sadda fa… Della persona si dice già che tra due anni sarà candidato al Campidoglio. Contro Virginia Raggi (se la sindaca verrà meno all’impegno di rinuncia al secondo mandato) oppure, più probabile, del/la candidato/a «unitaria» Pd-movimento 5stelle. Senza escludere la Pisana qualora le cose volgessero in favorevole direzione.