di TOMMASO VERGA
IL TESTIMONE D’UN tempo più che mai oscuro. Il racconto di brani, di avvenimenti risalenti esattamente a cinquant’anni fa. Che nessuno narra, che si controlla scivolino via, perdute anche le pagine di calendario, irrecuperabili. Storie di mafia – né bianca, né capitale; quella “vera”, erede dei Beati Paoli – che inducono (obbligherebbero?) ad analizzare i periodi, i precedenti, le concause, ad approfondire le premesse. Anch’essi, come si addice al tema, avvolti in un inviolabile silenzio, inaccessibili tabù avvolti nel mistero. Come, perché, chi? ha pianificato l’invio a Mentana, a Monterotondo ma principalmente a Guidonia Montecelio, di (quanti?) siciliani in soggiorno obbligato (quando? tutti e soltanto mafiosi? con l’orchestrazione della famiglia Gambino?).
Ma c’è un «testimone». Che illustra vicende delle quali non si è mai parlato, che gran parte dei guidoniani probabilmente ignora. «Macché probabilmente!», devi scrivere «certamente…».
Come si conviene, all’origine c’è un treno, che parte da porzioni di territorio della provincia di Agrigento: Palma di Montechiaro, Favara, ma soprattutto Canicattì. Il ricchissimo quest’ultima domicilio del «mercato dell’uva Italia», prodotto coltivato su 11.250 ettari dell’isola, 9mila nell’Agrigentino, 2.250 nel Nisseno. Produzione seguita dalla determinazione del prezzo per tutti gli angoli del pianeta. Una «borsa» comprensiva anche della «Regina» di Puglia.
Dalla stazione di origine il viaggio si conclude a Guidonia Montecelio. Dove i nuovi venuti marcheranno una località su via Maremmana a mo’ di quartiere – in uso tuttora la denominazione «dei siciliani» –, occupandosi di coltivare frutta e verdura. Niente di «spontaneo», né terre occupate come ad Albuccione, sull’altro estremo della città. Qui bene pubblico, lì terreno privato. Il confronto tra i benefici dei poderi in provincia di Roma e quelli dei luoghi natii volge senza dubbio a favore dei secondi, incomparabilmente più redditizi.
Cosicché l’interrogativo iniziale riguarda il fatto che gli inviati al soggiorno obbligato si insediarono su un terreno padronale, intestato a un barone. Mai inteso il motivo dell’acquisto nel continente di un latifondo agricolo (e tale rimasto nonostante gli appena arrivati non disdegnassero l’attività politica nelle città; democristiani qui come a Mentana, diversamente a Monterotondo). Catasto a parte, la domanda decisamente più calzante: come poteva il nobiluomo (di Palma di Montechiaro?) conoscere in precedenza che quegli appezzamenti di Guidonia Montecelio – acquistati in tempi non sospetti – sarebbero stati destinati ai suoi servi della gleba?
In «cose di mafia» mai ricorrere alla casualità: era tutto orchestrato. Unica interpretazione plausibile. Un nome (dice A., «che chi sa, conosce benissimo per averlo frequentato sicuramente»): il clan Gambino, «una delle cinque famiglie mafiose di New York e una delle più potenti di tutti gli Stati Uniti», scrive Wikipedia. Lo scopo: occorreva un ambito non così evidente, utile a dissimulare i «paesani» delegati a operare alle porte di Roma (ma anche in proprio: si consideri qual è il risultato in termini di edilizia illegale dalla terra di mezzo Guidonia-attaccata-alla-Nomentana; con Tor Lupara e Santa Lucia a fare un tutt’uno prima della separazione referendaria).
Il resto conseguente è scritto nella storia dei 7 Colli del dopoguerra, nel Campidoglio delle giunte Dc-Msi, nelle pagine di Antonio Cederna su Capitale corrotta, nazione infetta. All’insegna dell’apologia della «ricostruzione» post bellica, dell’«Oscar alla Lira», dell’aumento della produzione manifatturiera. E dell’abusivismo edilizio che dette origine ai borghetti e alle borgate. Enormi effetti su rendite e profitti speculativi. Occulti in Italia, ben accolti in Svizzera.
I «pregi» del soggiorno obbligato. Troppo tardi si comprese che quella particolare misura repressiva era un beneficio per la criminalità. Sfruttato appieno dalle «organizzazioni regionali» al fine di allargare la loro influenza «legalmente», ma fuori dei luoghi d’origine. Localmente, si assegnò alla mafia Guidonia Montecelio (sin dalla fondazione?) e alla ‘ndrangheta Tivoli, dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso.
Il meccanico di via Roma «diviene» una clinica
La «premessa del tutto», come la definisce A., il co-narratore, trova l’iniziale spunto – in verità una conferma – il 19 novembre del 1969, giorno che segna la fuga di Luciano Liggio da «Villa Margherita», la clinica di Roma e il suo arrivo a Guidonia Montecelio.
Dice A.: «Ti rendi conto che la città maggiormente “pesante” nella provincia di Roma, Guidonia Montecelio, ha sempre nascosto parte della sua storia? consapevolmente e in forma direi scientifica?».
«Figurati! Lo scrissi sull’Unità tanti anni fa: “il 19 novembre 1969, il boss Luciano Liggio (Leggio per l’anagrafe; Liggio per la trascrizione errata di un brigadiere) fugge dalla clinica ‘Villa Margherita’ a Roma, dove è ricoverato. Il Tribunale di Palermo non può così notificargli un provvedimento di custodia in carcere. Se ne perdono le tracce. Le indagini sulla fuga accertano che dalla clinica ha raggiunto Guidonia Montecelio dove in tutta evidenza è atteso.
«“A organizzare e ad assistere Liggio (travestito da suora), è Giuseppe Corso, cognato di Frank Coppola “tre dita”, un boss residente a Pomezia dopo l’espulsione dagli Stati Uniti perché “indesiderato”; un’amicizia con Lucianeddu risalente al 1964, data la comune reclusione nelle carceri di Bari» (la ricognizione degli avvenimenti d’origine mafiosa di quei tempi, aventi come quinta Guidonia Montecelio, trova sempre protagonista «Frank Coppola ‘tre dita’»).
Come si vede, Luciano Liggio a Guidonia non capitò per caso, sarebbe come credere all’evento fortuito, incompatibile con vicende di mafia. L’episodio è stato ricostruito, si conoscono le modalità della fuga, mentre niente risponde ai preparativi, agli antefatti della scelta: perché Guidonia? Nulla si conosce sul «piano di fuga». C’è chi è ricorso alla logistica, alla comodità d’una città confinante con Roma, chi all’utilità dell’aeroporto (… credibile). Infine, ed è l’aspetto maggiormente intrigante, chi lo ha custodito a Guidonia per un periodo di tempo non breve, che si prolungò al 1970? Chi ha provveduto a curarlo? (il boss era affetto dal morbo di Pott, si sorreggeva a un bastone da passeggio).
In origine la rievocazione interessava il Circolo La Rochelle…
A. «Non t’aspettare che faccia i nomi! Tra l’altro indicherei solo figure sospette, figurine, non certamente i ‘sicuri’. Accontentati di sapere che il nascondiglio di Liggio era al centro della città, in via Roma. Per un lungo periodo, un meccanico dovette chiudere una parte dell’officina per utilizzarla a mo’ di clinica per ospitare l’infermo. L’uomo era contrario, ma dovette obbedire, venne obbligato».
«Che vuoi dire con “mesi”? Stando alle mezze frasi, Liggio rimase a Guidonia solo qualche giorno…».
A. «No, anche perché non sarebbe stato possibile, le sue condizioni di salute non lo consentivano, doveva essere curato. Il che escludeva una permanenza breve. Inoltre, alla ‘famiglia’ occorreva tempo per preparare, come nei piani, il trasferimento negli Stati Uniti. Che però, alla fine, venne cancellato».
A salute migliorata, Liggio si trasferì a Milano. Dove un’infermiera gli affittò un appartamento in via Ripamonti, fino all’arresto del 15 maggio 1974. Provvedimento che mise termine alle gesta delle «primula rossa di Corleone» ». Il soggiorno meneghino risulta agli atti della Commissione antimafia.
Chiedo: cosa pensi della rievocazione di questo mezzo secolo?
A.: «Mmm, non gliene fregherà niente a nessuno».
«Perché allora hai contribuito con questa testimonianza?».
A.: «Perché ero e resto fascista. E tu ne hai approfittato. M’hai chiesto una chicchierata sul circolo La Rochelle (l’organizzazione tiburtina di Ordine nuovo fondata da Paolo Signorelli, ndr) e invece hai cambiato l’argomento».
«Mo’ cosa c’entra il fascismo?».
A.: «Non fare il teatrino. C’entra, c’entra. Te lo ripeto, ne hai approfittato. Il rispetto della legge, la legalità, sono nel Dna di quelli come me, che non hanno rinunciato. Quell’altri hanno preso una strada diversa, c’è persino chi ha detto che a Guidonia la mafia non c’è mai stata e non c’è».
«Oddio, rinunciato? Quegli altri?».
A.: «Rinunciato, abbandonato… e basta! e falla finita! M’hai capito perfettamente, finiamola qui». Ma poi aggiunge: «Non si può abbassare la guardia, i mafiosi sono tuttora in ‘casa’, da Guidonia non si sono mai separati, non conoscono la parola ‘fine’. Paolo Borsellino aveva visto giusto».
«E sul circolo La Rochelle?»
A.: «Non so, adesso certamente non te ne parlerei».
LA DDA SUL 2018 DELLA MAFIA AGRIGENTINA. L’aggiunta di A. si direbbe lo specchio di quanto si legge nella relazione del 2018 della Dda, la Direzione distrettuale antimafia siciliana: «Cosa nostra agrigentina continua a condizionare anche l’attività politico-amministrativa cercando sempre più di controllare o orientare l’azione amministrativa degli enti territoriali in modo funzionale alle logiche del potere mafioso. Ne consegue che l’azione delle amministrazioni locali è sempre particolarmente esposta al concreto pericolo di condizionamento mafioso, attraverso pressioni e azioni che sono esercitate in più fasi sia sul corpo elettorale che sugli stessi amministratori. Nella provincia di Agrigento, i settori particolarmente esposti al rischio d’infiltrazione mafiosa sono quelli dell’agricoltura e dell’agroalimentare».
NELLE PROSSIME PUNTATE. L’iniziale capitolo della rievocazione finisce qui. Seguirà altro sugli avvenimenti successivi. A Luciano Liggio farà seguito Natale Rimi, il ragioniere dal Comune di Alcamo «comandato» alla Regione Lazio. Che sceglierà Guidonia Montecelio come città di residenza. Da ultimo, le indagini sull’omicidio del «giudice ragazzino» Rosario Livatino (nativo di Canicattì), l’avviso di garanzia a un siciliano di Guidonia, l’assassinio del maresciallo Guazzelli.