di TOMMASO VERGA
OGGI MARIETTA TIDEI formalizzerà l’uscita dal Partito democratico e l’ingresso in Italia viva. Il Pd della Regione Lazio perde un seggio mentre ne acquisterà uno – primo e unico al momento – la formazione di Matteo Renzi. Per dichiarazione immediata dell’eletta di Civitavecchia, la maggioranza non ne risentirà. Rassicurazione che Nicola Zingaretti avrà già sottoposto a «interpretazione». Nel Pd, «stai sereno» è diventato una sorta di mantra per chi lo riceve.
Inoltre, proprio nel momento in cui ci si accinge a valutare la portata di un sommovimento che va ben oltre l’attuale portata numerica, le conclusioni che vengono dal voto regionale umbro superano e di molto la «mobilità» d’uno scranno. Senza ignorare che contemporaneamente la destra della Pisana proprio oggi depositerà la lungamente annunciata mozione di sfiducia.
Cronologicamente, in un anno e mezzo dalla formazione dell’attuale Parlamento regionale, è la terza volta che Nicola Zingaretti è oggetto di analogo «processo». E sarà la terza volta che l’opposizione di destra ne uscirà con le ossa rotte (non è detto che dispiaccia, chissà). Anche se stavolta il documento potrebbe ricevere il sostegno del movimento 5stelle (in tutto o in parte).
Perché il timore non riguarda la possibilità di vedere approvata la mozione di sfiducia, quanto come l’effetto del voto ricadrà sui pentastellati del Lazio.
Sulle cui prospettive, ieri mattina, a Repubblica e a Fanpage, Roberta Lombardi, capogruppo alla Pisana, aveva dichiarato: «Noi siamo opposizione e ci comportiamo da opposizione. Il centrodestra, che è sfracellato con i consiglieri che fanno mille giri da un gruppo all’altro, pensa di tirarci in mezzo con mozioni di sfiducia. Lo dico con la massima trasparenza: se Zingaretti fa una proposta chiara io sarò la prima a portarla all’attenzione del gruppo e a chiedere che si metta al voto su Rousseau». Come dire: «disponibili ma…».
Anche dopo il voto dell’Umbria? Che registra per la sinistra «classica» a cominciare dal Partito democratico, il mantenimento inalterato delle precedenti percentuali nazionali mentre sui grillini si è abbattuta una autentica batosta. Della quale sarà importante capire l’indicazione: pro o contro l’alleanza con i dem? Dalla risposta che si darà Di Maio e il gruppo dirigente pentastellato si potrà capire se nel Lazio potrà proseguire il colloquio teso a far diventare di governo il «patto d’aula» tra Pd e grillini.
Perché, va ricordato, metà gruppo 5s (5 eletti componenti la «corrente» della sindaca di Roma Virginia Raggi e che in Regione Lazio fanno riferimento a Davide Barillari) mantiene alta la vis polemica proprio contro la Lombardi, accusata di voler concludere a tutti i costi l’accordo di governo con Nicola Zingaretti. Che a sua volta appare consapevolmente compiacente. Come per dire «attendo vostre decisioni». Tanto che i due assessori che dalla giunta si sono trasferiti in qualità di sottosegretari nel governo giallorosso – Manzella e Bonaccorsi – non sono stati ancora rimpiazzati.
Più «deciso a scegliere» appare invece l’ex leghista Enrico Cavallari, che sinora ha consentito all’«anatra zoppa» consegnata alla Pisana dalle elezioni del 4 marzo 2018 di «correre» comunque – il presidente e il centrosinistra sommano 25 seggi su 50, insufficienti per governare –, seppure con qualche machiavello utilizzato nei momenti più difficili. Un percorso personale che stando sempre ai rumors dovrebbe a breve concludersi con l’ingresso di Cavallari – ora nel «gruppo misto» – in Italia viva, il secondo dopo Marietta Tidei.
Ma ne servirebbe comunque un altro, perché, per Statuto, nella Regione Lazio, costituire un gruppo in aula vuol dire attestarsi almeno a tre eletti. Dove trovarli? Domanda retorica, la ricerca non sarebbe complicata né difficile. Due consiglieri regionali del Lazio si mostravano renziani in tempi non ancora maturi, né hanno cambiato pensiero ora che il partito dell’«altro Matteo» è stato costituito: sono Rodolfo Lena e Valentina Grippo (che si voleva pronta, anche da sola, a seguire il sindaco di Firenze prima della Leopolda). Totale, quattro.
Il numero cinque verrebbe assegnato a Laura Cartaginese, già consigliera comunale di Forza Italia a Tivoli, sospesa dal gruppo regionale per aver votato il bilancio di Zingaretti. Una scelta la sua, qualora fosse, che la donna – decisamente impegnata nel sociale – giustifica con la totale contrarietà a stipulare intese con la Lega di Matteo Salvini. In tal senso, la Cartaginese si è espressa nelle recenti elezioni comunali della sua città – Tivoli, appunto – «realizzando» il mancato accordo tra Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega per Salvini.
Riepilogando, in Regione Lazio si aprirebbe un problema sconosciuto, quello di accontentare gli appetiti di «vecchi» e «nuovi», formazioni politiche, consiglieri, gruppi. Come s’è visto, il movimento 5stelle si compone ormai di due partiti, 5 consiglieri ciascuno. Ammesso prevalga la posizione politica di Roberta Lombardi, salvo mutamenti all’attuale assetto, come regolarsi se andasse a buon fine la trattativa? Quanti posti in giunta, a entrambi i contendenti? Stesse quotazioni di Italia viva di Matteo Renzi? Con il presidente della Regione costretto-obbligato a ballonzolare qua e là per dare seguito a ogni richiesta.
Sarebbe disposto Zinga a intraprendere la via della mediazione all’infinito? Con il pericolo di introdurre il ricatto permanente nel governo della Regione? Oppure riterrà sufficiente ammansire i partner con la minaccia di elezioni anticipate? Una strada percorribile potrebbe passare attraverso la crisi della giunta, con la riformulazione totale del programma, delle deleghe e delle attribuzioni. Una sorta di «patto dell’esecutivo» analogo al «patto d’aula» stipulato nel 2018 con le opposizioni e totalmente gradito dai 5stelle (elogi vennero anche da Barillari. Che poi ha cambiato opinione).
Tutte soluzioni che però potrebbero fare i conti con la decisione finale, lo scioglimento del Consiglio regionale e le elezioni anticipate nel Lazio. Un coup de théâtre che costringerebbe al ripensamento tutti gli oppositori interni alla maggioranza oltre che disarticolare il fuoco amico. In primo luogo proprio quello di Matteo Renzi.
Un ultimo aspetto privo di immediate ricadute sugli assetti regionali lo propone la fine – se lo è – dell’accordo tra Marco Vincenzi (ex sindaco di Tivoli) e Marietta Tidei (figlia di Piero, una «carriera» politica iniziata con il Pci e proseguita all’ombra di tutte le formazioni venute dopo lo scioglimento di Falce e Martello: Piero Tidei da sindaco di Civitavecchia è (ora) sindaco di Santa Marinella.
In apparenza, tra Vincenzi e Marietta Tidei è intervenuta una gelata (i due si presentarono insieme alla prova del rinnovo del Consiglio regionale nel 2018). Diversamente da quanto sostengono i maligni che vogliono invece la realizzazione di un disegno politico che vuole il primo (attuale presidente della commissione Bilancio regionale) controllare entrambi i «forni»: quello del Partito democratico e l’altro di Italia viva. Con la distribuzione dei «suoi» nelle due formazioni (un piano in attuazione anche a Tivoli, con l’annuncio di una consigliera comunale renziana nella sua città). Una posizione di attesa, pronta a scattare in dipendenza dell’evoluzione delle cose.
Il che potrebbe voler dire proporsi Vincenzi come l’«uomo della mediazione» in sostituzione del ristretto compito di Zingaretti, esclusivamente capo del Partito democratico. Magari con l’ambizione di occuparne lo scranno di via Cristoforo Colombo. Soltanto malignità? Naturalmente.