I TRE ASSASSINATI DAGLI «STIDDARI» DI CANICATTI’ E PALMA DI MONTECHIARO E MANNHEIM
25 settembre 1988, Antonino Saetta (e il figlio Stefano), magistrato, nato a Canicattì; mandanti dell’omicidio Salvatore Riina e Francesco Madonia; esecutore Pietro Ribisi, della cosca di Palma di Montechiaro; agguato organizzato dal boss Giuseppe Di Caro
21 settembre 1990, Rosario Livatino, magistrato, nato a Canicattì; condannati i killer, i palmesi Gaetano Puzzangaro e Salvatore Calafato, e il mandante Giuseppe Montanti
4 aprile 1992, Giuliano Guazzelli, maresciallo dei carabinieri; per la sua morte comminate sei condanne all’ergastolo: Salvatore Fragapane, Joseph Focoso, Simone Capizzi, Salvatore Castronovo, Giuseppe Fanara e Gerlandino Messina
Le indagini – con qualche spazio per i punti interrogativi – hanno condotto alla conclusione che, con l’esecuzione dei tre delitti, gli «stiddari» di Canicattì abbiano portato a compimento un incarico
Anche se il sospetto degli inquirenti (rimasto tale) è che gli stragisti avessero mancato un altro obiettivo, il giudice Paolo Borsellino, quarto della lista
di TOMMASO VERGA
di GIULIANO GIRLANDO
FRANCESCO BERGOGLIO ANNUNCIA l’avvio del processo di beatificazione di Rosario Livatino. Per quale ragione? «Il martirio riconosciuto del magistrato siciliano nella lotta contro la mafia» si risponde. Una scelta che ulteriormente mostra un Papa che non si limita a predicare, ad ammonire – come avvenuto in precedenza –, ma designa un «beato» dichiaratamente avverso alla mafia. Una decisione che condanna tutte le ritualità dei picciotti. Anche per i non cattolici, Rosario Livatino è il primo «santo antimafia».
Approfondendo le ricerche sul «giudice ragazzino», come sprezzantemente lo definì Francesco Cossiga, ci si “imbatte” in un altro magistrato, Antonino Saetta, e in un maresciallo dei carabinieri, Giuliano Guazzelli, noto alle cronache di Guidonia Montecelio – non proprio notissimo in verità –, la città nella quale la mafia non esiste. Tutti e tre trucidati dallo «stesso» gruppo di fuoco a compimento di un progetto preordinato.
I precedenti dichiarati. I residenti pro-causa, da Luciano Liggio a Natale Rimi
«SUOR» LUCIANO LIGGIO (così il travestimento) a Guidonia Montecelio trovò complice ospitalità dopo la fuga da Villa Margherita, a settembre del 1969. Per tutto il tempo necessario a organizzare il trasferimento a Milano (in treno? in aereo?). Ben custodito il boss, grazie all’officina “sanitaria” a doppia entrata, «ristrutturata» e resa abitabile, dislocata nel centro-città. A due passi dalla stazione ferroviaria e a quattro dall’aeroporto «Alfredo Barbieri». Altrettanto indisturbato l’altro residente (nel suo caso di lungo periodo) a Guidonia Montecelio, Natale Rimi, l’armiere del golpe Borghese, condannato nel procedimento giudiziario sulle infiltrazioni mafiose nella Regione Lazio (a proposito: nessuno sa indicare dove oggi sia celato).
Di entrambi, a Guidonia Montecelio è rimasto l’odore putrido dell’omertà che ha accompagnato le vicende. Mai venuta meno, inossidabile a distanza di mezzo secolo il patto tra i fascisti di Junio Valerio Borghese e di Ettore Muti con i mafiosi.
Omertà che ha segnato poi l’ingresso sulla scena guidoniana del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, il «mastino». Non un cenno neppure a seguito dell’orribile esecuzione 24 ore dopo aver interrogato due residenti siculo-guidoniani. Su quei crimini riprendiamo la narrazione grazie agli aggiornamenti forniti da indagini e sentenze sui tre feroci assassinii organizzati dalla «stidda»: oltre a Guazzelli, quelli dei magistrati Antonino Saetta e Rosario Livatino. «Giustiziati» dai sodali di un unico gruppo di fuoco, tre “batterie” criminali provenienti da Mannheim, Germania.
Per memoria. Indagando sulla morte di Rosario Livatino ma anche sulla guerra per i nuovi equilibri delle cosche, ad aprile del 1992 Paolo Borsellino, procuratore aggiunto alla Dda di Palermo con specifica competenza per i territori di Agrigento e Trapani, delega a Giuliano Guazzelli l’incarico di interrogare Giuseppe Caramanna e il fratello Roberto, un frate residente nel convento di via Maremmana, a Villanova di Guidonia. Oggetto dell’interesse del giudice, un biglietto trovato nelle tasche del boss Giuseppe Di Caro, capo della mafia agrigentina, vittima della «guerra».
Un tandem ricostituito quello fra il giudice e il maresciallo. Che aveva lavorato a lungo a Palermo negli anni Settanta, agli ordini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e del colonnello Giuseppe Russo, uccisi entrambi. Segue il trasferimento a Trapani. Poi, ancora, il comando della stazione dei carabinieri di Palma di Montechiaro, la frontiera più avanzata. Infine, il suo ultimo incarico nel palazzo di giustizia di Agrigento, capo del nucleo di polizia giudiziaria. E proprio in questa fase, si erano riannodati i rapporti con Borsellino che al «mastino» aveva affidato il compito di far da “terminale” per le sue inchieste nella zona. Tra le quali, le indagini sul delitto Livatino.
L’interrogatorio a Guidonia Montecelio probabilmente senza verbale
Cosa avrà ricavato Giuliano Guazzelli dall’interrogatorio del 2 aprile 1992 di Giuseppe Caramanna (e del fratello Roberto)? Una risposta è impossibile. Ci si accosta per impressioni. Non si esclude che la prossima puntata si soffermi su quel dialogo. Si presume che il maresciallo non abbia potuto memorizzare nulla. Per mancanza di tempo, visto che il 4 sarebbe stato trucidato.
Tornando a Giuseppe Caramanna, l’accertamento della professione. Un «fattore». Qualifica che, secondo il codice civile, individua chi «dirige un’azienda agricola, amministrandola per conto del proprietario». Stando alla narrazione, Giuseppe Caramanna lo sarebbe stato per il barone La Lumia, un patrizio di Palma di Montechiaro, titolare dei terreni da Villanova a Marcellina, un po’ fuori dal centro abitato. Nulla lasciava immaginare altro.
A quei tempi si faceva “a mezzi” del raccolto, la «mezzadria» appunto. Metà al titolare del latifondo, l’altra divisa tra i braccianti (non si era più ai «servi della gleba…» anche se poco mancava). Una volta l’anno raccontano, il barone arrivava a Guidonia invariabilmente con la sua «Lancia Aprilia» nera, in trench bianco – una sorta chissà di fascino per il Tenente Sheridan per stare al passo con i primi tempi della tv italiana –, saldava i conti con i braccianti, i coloni e i mezzadri tramite Giuseppe Caramanna e ripartiva il giorno stesso per Palma di Montechiaro.
Quello che non risulta, oltre alla data di invio, è la specifica dei motivi. Si parla di «soggiorno obbligato» senza alcun’altra precisazione. Perché a Guidonia? E come poteva il nobiluomo di Palma di Montechiaro possedere quel podere agricolo, così grande oltretutto?
Chi a Guidonia Montecelio Giuseppe Caramanna ha conosciuto e frequentato, lo descrive attivo capo della Democrazia cristiana cittadina, mai restio ad assumere decisioni, a partecipare.
Non si sa se vi riuscì il maresciallo Guazzelli visto il kalashinikov che mise fine alla sua vita venne azionato 24 ore dopo il rientro a Menfi, la città dove abitava, appena il giorno appresso gli interrogatori di Guidonia. Un tempo insufficiente alla stesura del verbale dell’interrogatorio.
A Palma di Montechiaro nasce la «stidda». Ed è conflitto contro Cosa nostra
La ricerca dei motivi che hanno condotto a scrivere il secondo capitolo* delle relazioni tra le terre del Gattopardo e Guidonia Montecelio s’è avvalsa cammin facendo di un particolare contributo, quello di Carlo Lucarelli. Che sull’ultima pagina del Venerdì di Repubblica di fine anno ha riepilogato un fatto di mafia di fine ’91. Che ci sta tutto nella individuazione delle ragioni sottostanti un fatto rimasto senza giustificazione, passato sotto silenzio: cosa e perché Guidonia Montecelio è stata teatro dell’episodio d’origine? quello poi coperto dall’assassinio d’uno dei protagonisti, Giuliano Guazzelli? Vi sono attinenze, relazioni tra l’interrogatorio svoltosi a Guidonia ad opera del maresciallo, il 2 aprile del 1992, e il suo omicidio, 24 ore dopo, il 4 aprile? Una relazione seppure ipotetica che nelle cronache dell’epoca non venne tenuta in conto, salvo Umberto Rosso, su Repubblica del 27 dicembre di quell’anno.
* Il primo capitolo, pubblicato sull’Unità il 3 gennaio 1993 , «La piovra alle porte della capitale» – https://archivio.unita.news/assets/main/1993/01/03/page_023.pdf
Carlo Lucarelli risale al 31 dicembre 1991, in provincia di Agrigento. Nel “bar 2000” di via Roma, a Palma di Montechiaro, si registra una sparatoria. La cittadina è il luogo di nascita della «stidda», la quinta mafia (detta così perché arriva dopo Cosa nostra – alla quale intende sostituirsi –, camorra, ‘ndrangheta e la pugliese Sacra corona unita). I cronisti la definiranno «Faida del Gattopardo», «una guerra di mafia che oppone le famiglie locali agli Stiddari, i mafiosi di Gela» scrive Lucarelli. Due i morti sul pavimento del bar. Anche un altro non ce la farà. Si chiama Salvatore Caniolo, al vertice degli «Stiddari» locali. Un «incarico» che non colma le ambizioni di vertice del giovane (Caniolo ha vent’anni). Immediatamente trasportato dalla guardia medica di Camastra (un paesino «attaccato» a Palma che tocca i duemila abitanti; qui sono sepolti Tommaso Verga e nonna Anna: sconosciuti, almeno sinora) all’ospedale di Canicattì e a quello di Enna, dove morirà. Per un polmone perforato.
A conferma dei sospetti il viaggio di Paolo Borsellino a Mannheim. Da quella località sono partiti i killer di Saetta, Livatino e Guazzelli
L’omicidio di Guazzelli data 4 aprile 1992; è del 23 maggio la strage di Capaci, con la morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei 3 uomini della scorta. Inaspettatamente, il 7 luglio 1992, accompagnato dalla sostituta Teresa Principato e dal tenente Carmelo Canale, Paolo Borsellino va in Germania, Mannheim la stazione. Sarà l’ultimo viaggio, la strage di via Mariano D’Amelio data 19 luglio.
Oggetto dell’interesse del giudice è il detenuto Gioacchino Schembri, di Palma di Montechiaro, sospettato di essere uno dei killer di Rosario Livatino, arrestato in Germania il 14 aprile di quell’anno. L’uomo aveva cominciato a parlare già con Paolo Borsellino, con lunghe pause. Dovute al timore per la sua vita e per quella dei suoi tre figli.
L’8 luglio, l’interrogatorio di Schembri continua. Sa di non aver più scampo e, come un fiume in piena, dà il via alla sua confessione-collaborazione. L’omertà delle famiglie di Palma di Montechiaro si è finalmente rotta. Schembri verrà estradato in Italia il primo agosto su richiesta della procura distrettuale antimafia di Palermo. Convinto a collaborare.
Una trasferta che conferma per il magistrato la validità delle prove raccolte. La principale è che Mannheim costituisce la località dalla quale sono partiti i killer di Saetta, Livatino e Giuliano Guazzelli. La conferma di una ipotesi investigativa, che condurrà a una «nuova lettura» di una storia di mafia della quale il magistrato non potrà scrivere i capitoli successivi. Che non possono però rimanere avvolti nel mistero.